Los seres humanos creamos culturas. Observamos, pensamos, imaginamos, obramos, comunicamos nuestras experiencias... Somos variados. Construimos nuestra "realidad". Fabricamos opiniones y maneras distintas de narrar nuestras vivencias. Este espacio expone estudios y trabajos del campo de la antropología del bienestar y la salud así como de la antropología de la naturaleza, sus componentes y sus leyes mostrando diversas concepciones y acciones que en esos terrenos se pueden dar y llevar a cabo en las culturas y sociedades del mundo.

Foto: "Águila peleando con serpiente". Tatuaje clásico del artista: Alvar Mena (La barbería tatuajes. Salamanca)

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SEGUNDA ETAPA

martes, 29 de abril de 2014

"LA LIMPIA NELLE MEDICINE TRADIZIONALI MESOAMERICANE"

El presente texto es parte de la versión italiana del libro "La Limpia en las Etnomedicinas Mesoamericanas", publicado en Italia por ARACNE EDITRICE. Autores: Alfonso J. Aparicio Mena & Francesco Di Ludovico. Traducción hecha por F. Di Ludovico. Cubierta e ilustraciones: Álvar Aparicio Tejido.

"Malattia e cura
Come già detto, l’equilibrio che garantisce la salute all’uomo è interno a questo (fisico e psichico) così come esterno (instaurato, dunque, con la società, l’ambiente e l’ultraterreno). In tal modo la malattia, secondo tale cosmovisione, può avere origine dalla rottura di questo equilibrio a causa dell’inadempienza a regole con il suo habitat generale implicando cosmo e divinità; pertanto gli originari mesoamericani dichiarano una visione olistica dell’uomo. Secondo questa —ripetiamo— l’Uomo è concepito come un insieme relativamente indissolubile di componenti somatica (corpo) e psichica (mente, affettivo–emotiva) insieme a quelle spirituali (Tonalli, ecc.); a questo aspetto, intrinseco ed estrinseco, si sommano il mondo superiore (cosmo, calendario, dèi, ecc.) e le credenze (superstizioni, magia, ecc.). La relazione microcosmo–macrocosmo si instaura tra l’Uomo e l’Universo (divinità incluse), così come tra le sue parti (organi) e gli astri. Il livello orizzontale mette a confronto l’Uomo con i suoi simili, con l’àmbito sociale e con quello naturale.

Da queste considerazioni strutturali si può capire come per gli indigeni diventano fondamentali, per mantenere la salute, l’amore per se stessi e per gli altri, per gli dèi e la natura, l’attenzione ai pensieri, il timore alla magia e il rispetto all’influenza calendarico–astrale. Perciò le eziologie nosologiche possono essere molte e composite, come i danni organici, i problemi mentali, le sociopatie, l’alterata relazione con la natura, la mancanza di religiosità, l’invidia, il susto, il mal aire, il malocchio[1].

Vogliamo approfondire in questo paragrafo il concetto di Tonalli, di cui abbiamo già fatto cenno. Una visione strettamente cristiana cattolica ha, impropriamente, tradotto la parola nahua “Tonalli” (o “Tonal”) in “anima” o “spirito” o, con sforzo sincretico, “ombra”. Il Tonalli lo possiamo interpretare, piuttosto, come una specie di aura che nasce dalla testa, circonda il corpo essendone una parte al contempo; divina energia, afflato sacro, forza vitale, intelligenza saggia, principio essenziale che resiste alla morte e che determina al suo possessore indole e destino, libera volontà, coscienza. Fisiologicamente, secondo le testimonianze originarie, il Tonalli si separa dalla parte somatica al momento dell’orgasmo, nel sogno e in caso de ebbrezza[2]. Inoltre, le cose apparentemente inanimate hanno il proprio Tonalli (“subatomica vitalità”, potremmo dire); anche con questo senso possiamo concettualmente assimilarlo all’asiatico Qi; in realtà ad una parte del Qi essenziale, poiché anche il Qi è la materia fisica e l’organizzazione e l’insieme di leggi del mondo newtoniano. Nella tradizione della MTC si dice, per esempio, che quelli che chiamiamo «organi» (come il cuore, il fegato, il polmone, la milza, il rene) hanno le proprie “essenze” (Qi) o entità psichiche associate, di natura sottile (potremmo dire quantistica o addirittura subquantistica). Questi “spiriti” associati o uniti necessariamente ai suddetti organi sono: Shen, Hun, Po, Yi, Zhi e tutti dipendono e derivano dallo Shen generale individuale (mente di ogni persona, identità differenziata da quella di un altro individuo, essendo però parte del Qi universale).

Nelle pagine precedenti abbiamo accennato a due importanti malattie di nosologia indigena mesoamericana: il susto e l’aire; qui vogliamo spiegarle meglio. Nell’àmbito nosologico mesoamericano, la parola “susto” possiede una valenza semantica più profonda di quella semplice e sinonimica di “spavento”; di fatti, può parafrasarsi come “stress post–traumatico”, la medesima malattia che secondo la moderna psichiatria soffre una persona a seguito di un brutto incidente o di un lutto doloroso. Ciò si rende causa della “perdita del Tonal” (chiamata oggigiorno, per sincretica traduzione, “perdita dell’anima” o “perdita dello spirito”), che consiste clinicamente in depressione nervosa, stanchezza, insonnia, incubi o altri malesseri funzionali (psicògeni, non organici)[3]. I miei informatori dello Stato messicano di Oaxaca me lo hanno descritto (con altre parole) come un problema risultante dall’interazione con l’ambiente (fisico, sociale e culturale–simbolico) per persone appartenenti ai gruppi originari o alla società meticcia. Il susto provoca varie reazioni, però le persone che ne soffrono si debilitano sempre più, perdono interesse per il cibo e le bevande, per la gente e per le altre cose; sono tristi, dimagriscono o sono infiammate, a volte si esauriscono, respirano a fatica, hanno fobie e difficoltà nelle relazioni con gli altri. Si dice che un luogo, una circostanza, alcune persone, un animale, un fenomeno meteorologico (intesi come esseri dotati della capacità di influire sulle persone e sulle cose) eccetera, hanno rubato loro o hanno fatto sì che “perdessero l’anima”, il costituente animico–energetico–vitale capace di mantenerle unite al mondo e operative nel proprio gruppo. Alcuni dei miei informatori etnomedici assicurano che il susto non curato può evolvere fino alla morte del paziente; e credono anche che contro il susto i rimedi occidentali siano per la maggior parte inefficaci, e che soltanto l’abile intervento dello specialista o di un’altra persona che conosce i procedimenti tradizionali di cura possono interrompere l’evoluzione e/o risolvere il problema. Anche nell’àmbito della classe scientifica messicana ci sono persone che parlano con gran rispetto del susto, sia perché ne hanno personalmente sofferto sia perché lo hanno visto in persone a loro vicine. I miei informatori mi riferirono di alcune esperienze di susto senza che avessero una spiegazione logico–scientifica dei fatti narrati.

L’aire è un altro problema di nosologia indigena: ha il significato di “soffio energetico”, “alito magico” frequentemente a connotazione negativa (mal aire). Consiste, secondo le genti locali, nella compromissione della persona a causa di “energie” provenienti da sguardi o pensieri, ma anche dal terreno, dalla prossimità ad aree malsane, acque stagnanti, immondezzai o spazi qualificati impuri e dannosi da un punto di vista tradizionale (simbolico). Infatti, quando si acquisisce con gli sguardi cattivi della gente, il mal aire coincide con il malocchio. Si può pensare bene o male della persona cui si rivolge lo sguardo. In ogni caso, tali pensieri possono trasferirsi come “energie” producendo aire. Lilian Scheffler dice che il mal aire si acquisisce passando vicino al cimitero o se una persona, con l’intento di cagionare del male, mette ossa di morto o terra cimiteriale in casa; e che si cura con limpias praticate da parte di specialisti[4].

Nella cura, si dà di solito, comunque, somma importanza all’aspetto religioso, poiché c’è la credenza che alla fine la volontà di Dio (o, in termini di politeismo, gli dèi) influisce sul resto. In tal modo, un semplice mal di testa non è visto soltanto come tale, bensì come un’infermità che è potuta capitare per varie ragioni, frequentemente congiunte, la cui risoluzione necessita comunque dell’aiuto divino. L’essere umano, infine, non dipende da ciò che egli usa per riequilibrare la bilancia, bensì da ciò che Dio dice o decreta per lui e il per il suo futuro. Se la divinità decide che egli si salvi, l’Uomo troverà i mezzi per salvarsi; se la divinità decide che egli muoia, nessun mezzo, tradizionale o moderno, lo libererà dal destino (o progetto) “fatale”.

E quindi —come si chiedono le credenze tradizionali— che cosa ci facciamo qui, in questo mondo? È penoso mettersi in questo genere di pensieri. Siamo —come dicevano gli antichi amerindi— semplici “cammini di dèi”, “strade di Entità superiori”, “stazioni di riposo o di cambio” in cui le potenze divine è come se riprendessero forza prima di continuare il proprio percorso. Così lo intendevano gli Aztechi e altri popoli autoctoni quando facevano morire gli “incarnati divini” con il fine che aiutassero a far rinascere gli dèi che vivevano in loro (o in coloro in cui gli dèi si convertivano temporaneamente). Era necessario aiutare la divinità, uccidendola; o, detto in altro modo, facendo terminare la vita al contenitore umano che la albergava (o a quello in cui si era fusa). Ed esistevano molti tipi di morte, secondo le date del calendario e delle festività. Anche i modi di dare morte agli “sciagurati” supporti umani dipendevano dall’importanza della divinità, delle sue funzioni e di altre matrici della complessa organizzazione e struttura dei sacrifici. Tutto era “scritto” e organizzato. Nessuna o pochissime cose si davano al caso. I cicli e i cieli comandavano e con essi i rituali più volte celebrati. Gli officianti incaricati di dare la morte avevano profonda conoscenza del corpo umano, pertanto, se lo desideravano, potevano fare il proprio lavoro, minimizzando il dolore o la sofferenza del sacrificato. Si usavano prodotti narcotici come il vino di agave (pulque) per determinati uomini destinati e in determinate circostanze. I sacrifici umani erano uno spettacolo poiché assembravano varie persone a presenziarli. Però erano, essenzialmente, procedimenti tecnici, limpias speciali con cui produrre la morte necessaria per rinascere e in tal modo aiutare a perpetuare il movimento costante del “rinnovamento” obbligatorio e continuo (“eterno”) del contesto divino. Tali limpias di sangue e con sangue sono per noi ripugnanti dal nostro attuale punto di vista; tuttavia, per gli Aztechi erano una “necessità” mossa dalla paura di ciò che sarebbe capitato si fosse fermato il ciclo del rinnovamento morte–rinascita. Gli dèi dovevano essere blanditi in ogni istante, e ce n’erano molti. Occorrevano, dunque, molti uomini da sacrificare. Alcuni —come abbiamo già detto— trasformandosi in dèi momentaneamente (giacché si poteva far morire una divinità soltanto attraverso della corporeità umana); altri, per essere offerti chiedendo aiuto, clemenza e tranquillità a dèi più “astiosi” e “irascibili”. Alcune persone destinate al sacrificio erano autoctone; altre, erano persone limitrofe catturate in guerre e battaglie. La finalità della guerra era, infatti, di conquistare “prigionieri”, materiale umano per onorare le festività sacre e i rituali necessari.

La vita umana, fisica, come obiettivo, il lavoro per conservare l’in-tegrità strutturale del corpo, erano anche fini nobili e di prim’ordine nell’àmbito dell’organizzazione sociale degli Aztechi. Si utilizzavano davvero tutti i mezzi disponibili per aiutare a curare una persona destinata al sacrificio, soprattutto se era un’“incarnata” per nascita; questa veniva ben accudita durante la propria esistenza terrena fino ad arrivare al momento di essere sacrificata in una data specifica con il fine di liberare alla divinità che rappresentava (tra l’“umano oblio”). Tuttavia, non litigavano tra di loro. In cima a tutto c’erano i sacrifici, nell’àmbito dei quali annoveriamo tale principio della limpia, come ben chiaramente dimostra il bagno temazcal: eliminare il vecchio per far comparire il nuovo dell’essere; togliere i mali che gli rendono difficoltoso il cammino verso il “rinnovamento”, con morte reale ai tempi aztechi, con “morte” simbolica successivamente e ai giorni nostri. Il Codex Florentinum di Fra Bernardino De Sahagún è ricco di dettagli su tali pratiche e sulle norme che le regolavano in epoca preispanica. E nella società azteca si traeva profitto da tutto. Non si sprecavano i corpi delle persone uccise: essi erano richiesti o comprati da parte di personalità o famiglie per realizzare banchetti a casa e festeggiare il giorno nutrendo gli invitati, familiari e amici lì riuniti.

La vecchia idea, dunque, della compartecipazione divina al benessere umano continua a essere presente tra le persone delle etnie mesoamericane, come abbiamo esaminato; tale idea è addirittura confluita nelle tradizioni della società meticcia e urbana.

«Facciamo ciò che ci è permesso di fare», segnalano alcuni etnomedici dello Stato messicano di Oaxaca riferendosi alla relazione con le “sfere superiori”. «Abbiamo bisogno, quindi, di includere in molti dei nostri lavori preghiere, suppliche, offerte e ogni segno che richiami l’attenzione di Dio, della Santa Maria e degli altri Santi affinché ci concedano ciò che chiediamo».

Don Isaías dice, per esempio, che se alla fine moriamo non succede niente; ritorniamo all’origine, là da dove siamo venuti: al Padre. «Non bisogna avere paura», dice. Nella tradizione meticcia che rappresenta questo guaritore, non vediamo qualcosa vicino a ciò che si può leggere nel Codice di Sahagún e che abbiamo riassunto brevemente nelle righe precedenti? Morire, ritornare all’origine, ritornare al Padre. Don Isaías ci parla del ciclo vitale superiore (ciclo di andirivieni). In esso esistono vari tipi di “morte”: quella delle malattie che come ostacoli bisogna eliminare poiché impediscono all’Uomo di seguire il suo cammino; e la morte fisica, fine del tragitto segnato per ognuno di noi in questo mondo secondo le credenze tradizionali. Qui le malattie (quando una persona muore a causa loro) svolgono il ruolo di “assassine”, necessità per “purificare” un’altra cosa e ritornare all’inizio; e così una e un’altra volta. “Purificare” secondo Don Isaías significava terminare con qualcosa, se si decide nelle sfere superiori, che debba “morire” (la propria malattia come ente) permettendo al malato di liberarsi e di rinnovarsi per seguire il tragitto della propria vita fino a che l’“altra morte” lo liberi ad “altri scopi”.

Piante

Il rapporto dell’uomo con il mondo delle “entità vegetali”, adibite o no a scopo curativo, è stato sempre molto stretto, soprattutto nei tempi antichi.

La cura tradizionale con le piante medicinali (chiamata «etnofarmacologia») in Mesoamerica obbedisce a molteplici parametri. Dopo aver dato una diagnosi di malattia organica, da parte della gente comune l’uso delle piante è principalmente proposto in maniera allopatica (fitoterapia), dove la scelta della pianta da impiegare è di tipo empirico (nel senso di sperimentale). Nonostante tale frequente evenienza, le piante utilizzate possono essere scelte in base alla natura “fredda” o “calda” della malattia, la parte del corpo colpita, il giorno e il contesto in cui la malattia è insorta. Tale approccio non corrisponde dunque esattamente all’allopatia attualmente intesa, ma la supera in quanto migliora la scelta vegetale rendendola più specifica ad ogni caso clinico anche quando si tratta del medesimo paziente (in momenti o casi diversi). La pianta medicinale è pertanto concepita come apportatrice, al corpo, di un salutifero messaggio energetico, di una specie di vibrazione sanatrice, un po’ come succede secondo la moderna floriterapia; inoltre, sempre secondo la cosmovisione meramente indigena, al vegetale si conferisce una valenza panteistica, come se esso fosse impregnato di divino, di quello spirito che vibra in tutte le cose anche di apparenza non animata[5].

Maria Alice Campos Freire[6] a tal proposito scrive che incorporare le proprietà della pianta in una pillola è molto meno effettivo di utilizzare la pianta allo stato naturale, poiché la forza vitale della pianta, elemento essenziale per la cura, viene distrutta quando se ne fa una pillola[7]. La “forza vitale” cui si riferisce tale Autrice è quell’energia superiore che anima tutto il creato e che riveste un carattere speciale in ogni essere (persona, animale, pianta) e in ogni cosa (minerali, spazi naturali, spazi umani, ecc.), che però evidentemente non trasferisce ai prodotti elaborati dall’industria farmaceutica. Questi possono avere le proprie “anime”, benché personalmente non conosco studi al riguardo.

Non è, dunque, infrequente che nelle etnomedicine mesoamericane le informazioni sulle cause di alcune malattie si ricerchino attraverso l’intervento del mondo spirituale, soprattutto quando si sospetta che l’origine del malessere sia divina. In tal caso diventa comune la pratica che il terapeuta religioso (lo sciamano in primis) si avvalga di piante[8] capaci di alterare lo stato della sua coscienza in modo che egli possa fare filantropica incursione nell’universo trascendente in cui chiedere a Dio il motivo dell’accadimento funesto[9].

Altre piante sono donate in offerta o in occasione di liturgie, altre possiedono finalità divinatoria. In questi casi, diversi, però tutti finalizzati a preservare religiosamente lo stato di benessere, il mondo vegetale diventa il mediatore tra l’Uomo e il Divino per ringraziarlo o blandirlo così come per acquisirne conoscenza. Quando, d’altra parte, il sospetto di una malattia è la magia, il paziente o i suoi familiari si orientano specialmente ad un curandero che proponga come cura una limpia fatta significativamente con erbe e preghiere. Comunque sia, a causa del fatto di conferire, tanto da parte della pagana religiosità indigena quanto di quella dell’iberico stato ecclesiale, somma importanza all’aspetto religioso, quasi sempre nella terra novoispana si propongono terapie che tengono in conto il divino, sia in forma sincretica sia in forma puramente pre–/post–Conquista.

Oggigiorno, dopo cinquecento anni di complessa integrazione con gli aspetti europei, sono, di fatto, circondati da una nuova flora, che ha già acquisito un carattere di nazionalità, quei molti alberi e piante medicinali autoctoni, vestigia di un antico paradiso, la cui coltivazione permise la realizzazione di mercati per l’esercizio formale della medicina indigena, e che tempo fa spuntavano meravigliosamente da mirabili giardini e da collezioni scrupolosamente curate[10].


[1] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, ivi.


[2] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, ivi.


[3] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, ivi.


[4] L. Scheffler. 2003, Magia y brujería en México: p. 23.


[5] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, op. cit.


[6] Rappresentante della Chiesa del Santo Daime, nella selva amazzonica.


[7] Tratto dalla cit. in C. Schaefer. 2008, La voz de las trece abuelas: p. 115.


[8] Come abbiamo già detto, sono chiamate «enteogene» (“dalle quali sorge il divino”, “che tirano fuori il divino che è in noi”) o comunemente «allucinogene».


[9] Cfr. F. Di Ludovico, A.J. Aparicio Mena. 2012, op. cit.


[10] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, op. cit."

domingo, 2 de marzo de 2014

RASGOS DE LAS ETNOMEDICINAS MESOAMERICANAS (Por: Alfonso J. Aparicio Mena & Francesco Di Ludovico)


El presente artículo es un capítulo de nuestro libro: "La Limpia en las Etnomedicinas Mesoamericanas", publicado por EAE  https://www.morebooks.de/store/gb/book/la-limpia-en-las-etnomedicinas-mesoamericanas/isbn/978-3-8484-7514-8. Versión en lengua inglesa: "The Limpia in the Mesoamerican Ethnomedicines", publicada por Bubok Publishing
Próxima edición del libro en lengua italiana y en lengua francesa.

(Texto protegido con Copyright. Queda prohibida su reproducción sin permiso expreso de los autores).

Para comprender mejor lo que vamos a tratar en seguida, queremos dar en este capítulo una síntesis de los rasgos principales de las medicinas tradicionales de Mesoamérica. Parte de las costumbres, creencias y prácticas mesoamericanas permanecen vivas en las religiones y creencias indígenas actuales como muchas otras cosas resistentes al cambio.
Según la tradición mesoamericana, el mundo está creado y recorrido por sustancias sutiles de origen divino. López Austin (1980) escribe que los antiguos mexicanos pensaban que esas esencias o sustancias, almas de todo, imperceptibles, habían penetrado todos los seres terrestres en el momento de la creación. Los creadores debían a estas sustancias su propia naturaleza. En el principio había una diosa acuática caótica y monstruosa llamada Cipáctli. Dicha diosa se dividió en dos. La parte de arriba constituyó el cielo, de carácter masculino. La parte de abajo, la tierra, de carácter femenino. Cuatro pilares–árboles separaron cielo y tierra para evitar una posible unión de ambos y la re–formación de la diosa. Los dioses de arriba se juntaron con los de abajo, cometiendo pecado. De ahí nació el tiempo. El pecado desencadenó un nuevo proceso de creación. De él surgió el mundo y los seres terrestres. Dioses, árboles y hombres son “caminos de dioses”, espacios de circulación de flujos o corrientes divinas (provenientes de Cipáctli). Según López Austin (1980), la concepción mesoamericana del tiempo original explica la existencia de dos tipos de materia: una sutil, casi imperceptible o imperceptible y otra burda, pesada, densa, perceptible sensorialmente[1]. Todos los seres terrestres (animales, vegetales, minerales) están formados por esos dos tipos de materia–sustancia. El ser humano, tendría materia densa y alma, o almas, de la misma naturaleza que los dioses, viniendo del flujo original de la creación. Así es que parte del ser humano es divina. López Austin (1980) entiende el pecado dentro del cuadro de las concepciones mesoamericanas, es decir, como la trasgresión de un mandato divino. Cometido por los dioses, explica López Austin (1980), dicha acción puede desembocar en un proceso de creación. Cometido por los hombres, subraya, produce una grave situación de desequilibrio que puede afectar a la familia del trasgresor o a otras personas pues tal situación tiene carácter contagioso.
COSMOVISIÓN. La cosmovisión de los pueblos originarios mesoamericanos tiene rasgos esenciales comunes. En síntesis: la característica peculiar, de eco–esteasiática y que según insignes autores comprobaría la derivación étnica de las gentes mesoamericanas, es la contemplación de la interdependencia de los opuestos y del equilibrio que estos hacen originar. Otra caraterística importante es la afirmación de la ciclicidad eventualmente renovadora de los eventos: a corto o a largo plazo, cada acontecimiento nace y se concluye; pero, cuando es sustentado por una acción benévola, la vez siguiente se mejorará. Un tercer rasgo es la creencia en la influencia recíproca de las acciones humanas y celestes (cosmico–calendáricas y divinas), la llamada “relación microcosmos–macrocosmos”: Hombre y universo están conectados por una mutua atracción por la que los pensamientos y las acciones del hombre repercuten sobre el universo de la misma manera en que los astros y las deidades de este último influyen sobre el hombre. Hay, también, la notable consideración del animismo. Según esto existen fuerzas vagas, impalpables, que sin embargo animan profundamente las cosas, los hombres y los acontecimientos; tales son: el Tonalli (con principal sede en la cabeza[2]), el Teyolía (en el corazón) y el Ihíyotl (en el hígado). Además hay las creencias en un universo tripartito: cielo, tierra e inframundo; comunicar con las divinidades a través del uso de las plantas psicotrópicas (enteógenas); en fin la influencia del calendario sobre los acontecimientos humanos, que ocurre con la regulación del flujo de las fuerzas anímicas de parte del mundo superior hacia nuestro planeta a través de un eje central (axis mundi, por lo general representado por el árbol cósmico como la ceiba o el maíz) y los cuatro puntos cardinales de ésta (Di Ludovico, 2009).
DUALIDAD. De ese principio básico (dual) deriva la concepción de todas las cosas en la tradición mesoamericana. En la antigüedad se aplicó la misma visión para las unidades menores de subdivisión de la realidad amplia. En Asia se ideó un sistema dialéctico para referirse a la dualidad del mundo, el sistema Yin/Yang. Con tal sistema se clasificaron y se ordenaron los componentes de la gran realidad así como los de las realidades menores referidas a la proximidad y al propio individuo.
De hecho, una de las características culturales de los pueblos originarios de Mesoamérica es la creencia en la coexistencia posible, incluso necesaria, de aparentes fronteras, explicada de manera parecida al sistema taoísta. Ellos conciben, pues, la dualidad como compuesta de partes complementarias más bien que opuestas, que se compenetran en lugar de excluirse. Esta dialéctica se aplica a muchos contextos: conceptos (vida/muerte, seco/húmedo, masculino/femenino, mucho/poco, salud/enfermedad, etc.), planes geográficos (objetivos: tierra/cielo, este/oeste, etc.; con niveles simbólicos: mundo/inframundo, humano/universo), seres superiores (humano/Dios), entes psicosomáticos (mente–alma/cuerpo), ámbito fisico–filosófico (microcosmo/macrocosmo, línea recta/círculo, etc.), alimentos y enfermedades (“fríos”/“calientes”), hasta a los dioses. Un resultado interesante de este tipo de concepto, siendo caracterizado por una coexistencia antitética, es que muchas veces está contemplada la realidad de un estado intermedio que nace del balance de los opuestos que lo animan; así que el equilibrio mismo se ve originado como elemento paradójicamente dinámico (Di Ludovico, 2009).
FRÍOCALIENTE. En las zonas rurales de México es, de hecho, común encontrar opiniones de la gente sobre el carácter “frío” o “caliente” de los alimentos y de las enfermedades. Pese a tales definiciones, estas calidades no tienen valor térmico. El concepto de la dicotomía frío/calor adquirió este nombre por adopción de las palabras hipocráticas usadas por los primeros médicos españoles. Esa dicotomía se fijó fácilmente a la cultura médica de Mesoamérica ya que fue directamente trasladada al concepto dualista allí ya existente (de probable influencia esteasiática). La mayor parte de los estudios conducidos sobre esta polaridad han insistido en aclarar sus aspectos históricos, antropológicos e ideológicos, mientras resultan escasos los que interpretan su aspecto propiamente medico–biológico. Las conclusiones de estos pocos estudios parecen sin embargo converger hacia la capacidad de los amerindios de discriminar a través de la sensación gustativa la naturaleza “fría” o “caliente” de los alimentos, según que éstos sean ácidos o dulces/altamente calóricos; mientras botánicamente parece ser la cantidad de agua presente en las plantas y la modalidad de su distribución en el tallo a determinar uno de estos dos caracteres opuestos. Considerados “calientes” son: los endulzantes, el cacao, la fruta seca, los alcohólicos y el café, la carne, los condimentos y aromas de sabor denso, huevos y lácteos. Parece por lo tanto verse un paralelismo con la dieta macrobiótica, de inspiración china, donde el carácter taoísta Yang de los alimentos es parcialmente superponible a lo “caliente” mesoamericano, mientras que el Yin a lo “frío”; así, alimentos “fríos” e Yin son representados por la fruta agria y por unos mariscos y crustáceos junto al jitomate, patata y pepino. Las plantas oficinales declaradas “calientes” por los amerindios son aquellas caracterizadas por un sabor amargo o fuerte al igual que las secas o urticantes o que sirven para curar las enfermedades consideradas “frías”[3]. Muchas plantas oficinales consideradas, al contrario, “frías” por los amerindios son aquellas turgentes o que nacen en las alturas o que sirven para luchar contra las enfermedades “calientes”[4]. Unas enfermedades consideradas “calientes” son: bronquitis, gripe, las infecciones, las que dan inflamación o fiebre; mientras las enfermedades “frías” son representadas sobre todo por aquéllas que los nahuas definían “de origen acuático” (supuestamente enviadas por parte del dios de la lluvia Tláloc) como los reumatismos (que los primeros cronistas españoles llamaban “gota”), el edema, el paludismo, además de helmintiasis (lombrices), cansancio crónico, picadura de insecto y mordedura de víbora (Di Ludovico, 2009).
Algunas apariencias y expresiones de alteración son vistas por los locales como situaciones complejas, mixtas; tal como se aprecia también en otras tradiciones (distintas y distantes como las chinas o norasiáticas) sin que concluyamos que tales semejanzas sean hermanas culturales de una tradición matriz común. Consideramos esta idea como posible por muchas razones que vamos explicando a lo largo del libro, pero en ausencia de comprobaciones directas por imposibilidad de viajar al pasado, tenemos que situarla en el terreno específico de las conjeturas. Existen, por lo tanto, problemas de salud y bienestar en las tradiciones de salud de las etnias mesoamericanas y de la sociedad mestiza caracterizados por hechos en los que se pueden apreciar juntas situaciones de “calor” y “frío”. Por ejemplo, las consecuencias de una gripe o un catarro mal curados pueden dar lugar a una situación fuertemente arraigada de alteración de la circulación hídrica corporal relacionada con una alteración de las mucosas respiratorias. Pueden aparecer sudores nocturnos, calores y sofocos no provenientes de variaciones hormonales, sensaciones de presión en el pecho, la tráquea, la zona de la garganta y el cuello; rinorreas líquidas que dan paso a mucosidades espesas y amarillo–verdosas con anosmia, dolores de cabeza alternantes y ubicados en diferentes sitios, heces amarillas, etc. En todo ello se entiende el concurso de un funcionamiento desequilibrado del hígado y de la vesícula biliar sin que necesariamente se vean valores sanguíneos alterados en una analítica convencional (transaminasas, por ejemplo) ni problemas estructurales y orgánicos (lesiones, inflamaciones, etc.). A todo ello se le suman rasgos de influencia emocional y experiencial fuerte (proveniente de algún hecho vivido o de la convivencia familiar o sociolaboral dificultosas, por ejemplo). Hay “calor” y hay “frío” a la vez. Hay “exceso” y “deficiencia” al mismo tiempo. Es un síndrome complejo. Homólogamente, en las tradiciones de salud asiáticas (MTC), se dice que el exceso o defecto de Inn pueden conducir al Iang y viceversa. En todo caso, hay que determinar qué fue primero si una situación Inn o Iang (llevadas al extremo) para atender la raíz del problema. En los grupos originarios oaxaqueños, las situaciones complejas requieren especialmente de la “limpia”. La “limpia” aclara el hecho, pudiéndose proceder luego mucho mejor a atender lo “caliente” o lo “frío” de manera específica según entienda el etnomédico o según requiera la situación. De todas las maneras, no hay procedimientos estándar ni protocolos tradicionales generalizables. Cada etnomédico, cada sanador, cada chamán, ven la mejor manera de solucionar los hechos complejos (que son muchos). Algunos aciertan, otros no. La “limpia”, sin embargo, es un gran recurso en las situaciones de alteraciones mixtas. Para el ejemplo antes mencionado (complicaciones de catarros y gripes, cronificaciones de malestares), tras la “limpia” o las “limpias” necesarias, los tés de hierbas son muy recomendados (arrastre de materiales tóxicos corporales hasta su eliminación) acompañados de consejos de vida, alimentación e higiene equilibradas y sanas. Eliminadas las “raíces energéticas” (“ojo”, “aire”, “susto”, etc.), la atención natural (basada en los criterios tradicionales expuestos anteriormente) completará, o deberá completar la/las atención/es.
EQUILIBRIO Y SALUD. La dualidad de tipo taoísta se aplica al concepto de salud también; por lo tanto se puede comprender que en Mesoamérica, al igual que en Asia, surgió una cultura de salud basada en la visión dual del ser humano, pero no como se entiende en la cultura occidental, con alma y cuerpo como partes diferenciadas, sino como una unidad fisico–energética y funcional con distintas manifestaciones y apariencias: equilibrada (salud, bienestar), desequilibrada (enfermedad). Ese dinamismo caracteriza la dualidad Yin/Yang como una realidad alternante susceptible de variar cuando se rompe la estabilidad (equilibrio Yin/Yang). Las variaciones funcionales del cuerpo pueden clasificarse como Yin o Yang[5]. Las variaciones físicas o estructurales de la unidad orgánica, también. Según la medicina tradicional china, un exceso de trabajo intelectual puede conllevar una bajada más o menos importante del escudo defensivo, lo que a su vez podrá dar lugar a desarmonías en el plano físico (dificultades en la circulación de los líquidos, infecciones, complicaciones posgripales y poscatarrales...). En las medicinas tradicionales mesoamericanas (tradiciones originarias y tradición mixta) se conserva la visión dualista, complementaria y compensatoria. Se atienden los problemas de “frío” con “calor”, los de “calor” con “frío”, los de “humedad” con “sequedad” y los de “sequedad” con “humedad” (a pesar de que, como expone López Austin –1984–, dichos conceptos puedan ser autóctonos o adquiridos).
El equilibrio que garantice la salud al ser humano es a él tanto interior (físico y psíquico) como exterior (instaurado, pues, con la sociedad y el medio ambiente), tanto superior (cósmico y divino) como “inferior” (mágico y supersticioso). Como pobladores del planeta, donde todas las fuerzas cósmicas se enfrentan y colaboran según el ritmo calendárico, es un deber de los hombres preservar el equilibrio entre ellas. De tal armonía precaria todo depende, desde la salud de las personas hasta el correcto funcionamiento de la sociedad, desde el ciclo de las estaciones hasta la supervivencia del mundo. Se puede, por lo tanto, comprender que la vulnerabilidad del ser humano es amplificada con respecto a la de los seres ultraterrestres ya que aquél se encuentra en una posición geográficamente central, volviéndose entonces un ser ambiguo por su naturaleza. Él vive, en otras palabras, en un limbo de influencias opuestas de arriba–Cielo y abajo–Inframundo, que le garantizan, sí, su existencia pero se la hacen conducir frágilmente. Expresado en términos cósmicos, él oscila en su vida entre los dos polos que tensan el Universo: el orden y el desorden (uránico, mental y social), así que en el mundo terrestre el humano vive una situación de precariedad ya que en cualquier momento puede romperse el equilibrio de los elementos constitutivos de su persona. Por eso puede enfermar (Di Ludovico, 2009).
En las creencias heredadas, aunque trasformadas por las influencias de los presentes históricos sucesivos, se guardan ideas de temor en muchas gentes originarias dependientes o insertas en los sistemas tradicionales: temor al movimiento de la balanza del bienestar, de la fortuna, de la tranquilidad, de la paz personal y social–local; temor a que las cosas den un giro de la mañana a la noche, temor a que las circunstancias se muevan hacia el dolor, el infortunio, la desgracia y las desdichas. El equilibrio de los poderes opuestos (en realidad, complementarios) es percibido como una situación variante y alternante. Nada permanece, todo cambia sin ciclicidad fija. Difícil hacer previsiones, tan sólo estimaciones. Don Erasto, etnomédico zapoteco de San Juan Tabaá (Oaxaca), conoce procedimientos de “predicción” con los granos del maíz; pero su saber se centra en el manejo del sistema adivinatorio a través del que se pueden “ver” guías del destino de lo que se está “consultando”. Detrás siempre estará un porcentaje de “azar cósmico” relacionado con la ubicación del propio destino humano en ese espacio geográfico impreciso, variante y oscilante entre los polos opuestos–complementarios de las fuerzas superiores que todo lo rigen y todo lo ordenan y controlan. En este sentido, también existen creencias relacionadas con “caprichos” del “destino” o de los entes superiores. Ser el objeto de interés de ellos para muchos originarios mesoamericanos no es bueno pues el humano puede convertirse en “moneda de cambio” o “terreno” de “conflicto” de los propios seres superiores entre ellos. En todo caso, siempre lleva las de perder (según una visión ligeramente pesimista).
El pensamiento mesoamericano corrobora la importancia, para garantizar la salud, de mantener un estado vital controlado y balanceado, de apagar los excesos conservando una condición de aurea mediocritas en cada circunstancia y en cada contexto: en la comida, en la actividad sexual, en las relaciones interpersonales, en el trabajo, en el sueño, etc. (Di Ludovico, 2009).
Frente a una acumulación de lo que llamaríamossuciedad metabólica”, la mayoría de los etnomédicos que conozco recomiendan un desbloqueo de los canales de eliminación así como una reactivación de la circulación hídrica y un reequilibrio hidrico–térmico. El baño temazcal es el medio idóneo para tal menester.
ENFERMEDAD Y CURA. Como ya hemos dicho, el equilibrio que garantiza la salud del humano es tanto interior (físico y psíquico) como exterior (instaurado, pues, con la sociedad, el medioambiente y lo celeste). Así que la enfermedad, según tal cosmovisión, puede surgir de la ruptura de ese balance por incumplimiento de las reglas con su hábitat general implicando cosmos y divinidad(es), pues los originarios mesoamericanos declaran una visión holística del ser humano. Según ella, como reiteramos, el hombre es concebido como un conjunto relativamente indisoluble de componentes: somática (cuerpo) y psíquica (mente, afectiva–emocional) junto a la del Tonalli; sumándose a este aspecto intrínseco el extrínseco: el mundo superior (cosmos, calendario, dioses, etc.) y las creencias (supersticiones, magia, etc.).
La relación microcosmos–macrocosmos se instaura entre él y el universo (divinidades incluidas), al igual que entre sus partes (órganos) y los astros. El nivel horizontal hace enfrentar al hombre con sus parecidos, con lo social, y con el entorno natural. De estas consideraciones estructurales se puede comprender cómo para los indígenas se vuelven fundamentales, para guardar la salud, el amor hacia el otro y hacia sí mismo, hacia los dioses y hacia la naturaleza, el cuidado de sus pensamientos, el temor a la magia y el respecto a la influencia calendárica–astral. Por esto las etiologías nosológicas pueden ser muchas y múltiples, tales como: daños orgánicos, trastornos mentales, problemas sociales, alterada relación con la naturaleza, falta de religiosidad, envidia, “susto”, “mal aire”, “mal de ojo”.
Queremos profundizar en este párrafo el concepto anímico de Tonalli, que ya hemos nombrado. Una visión estrictamente cristiana católica ha traducido impropiamente la palabra nahua “Tonalli” (o “Tonal”) en “ánima” o “espíritu” o, con esfuerzo sincrético, “sombra”. El Tonalli lo podemos interpretar, más bien, como una especie de aura que nace de la cabeza, rodea el cuerpo siendo parte suya al mismo tiempo; divina energía, soplo sagrado, fuerza vital, inteligencia sabia, principio esencial que resiste a la muerte y que da a su poseedor índole y destino, libre voluntad hasta conciencia. Fisiológicamente, según las referencias originarias, el Tonalli se separa de la parte somática en el momento del orgasmo, en la actividad onírica y en caso de embriaguez. Aún más las cosas al parecer inanimadas tienen su Tonalli (subatómica vitalidad, digamos); también con este sentido podemos conceptualmente asimilarlo al asiático Qi; en realidad a una parte del Qi esencial ya que Qi también es la materia física y la organización y conjunto de leyes del mundo newtoniano. En la tradición de la MTC se dice por ejemplo que los que llamamos órganos como el corazón, el hígado, el pulmón, el bazo y el riñón tienen sus “esencias” (Qi) o entidades psíquicas asociadas, de naturaleza sutil (podríamos decir cuántica o incluso subcuántica). Esos “espíritus” asociados o unidos necesariamente a los citados órganos son: Shen, Hun, Po Yi, Zhi y todos dependen–derivan del Shen general individual (mente de cada persona, identidad diferenciada de la de otro ser pero formando parte del Qi universal).
En las páginas anteriores hemos hecho referencias a dos importantes enfermedades de nosología indigena de Mesoamérica: el “susto” y “aire”; aquí queremos explicarlas mejor.
En el marco nosológico mesoamericano, la palabra “susto” tiene un valor semántico más profundo de aquello simple y sinonímico de “espanto”; de hecho, puede parafrasearse como “estrés postraumático”, la misma enfermedad que según la psiquiatría padece una persona después de haber sufrido un accidente chocante o un luto doloroso. Esto va a causar la pérdida del Tonalli (hoy llamada, por sincrética traducción, “pérdida del alma” o “pérdida del espíritu”), que consiste clínicamente en depresión nervosa, cansancio, insomnio, pesadillas u otras molestias funcionales (no orgánicas) (Di Ludovico, 2009). Mis informantes oaxaqueños me lo describieron (con otras palabras) como un problema resultante de la interacción con el medio (físico, social y cultural–simbólico), para gentes pertenecientes a los grupos originarios o a la sociedad mestiza. El “susto” provoca reacciones variadas, pero las personas afectadas van languideciendo poco a poco, pierden interés por comer, por beber, por la gente, por las cosas. Están tristes, adelgazan o se inflaman; a veces se desazonan, les cuesta respirar, tienen miedos y pierden el hilo de relación con su comunidad. Se dice que un lugar, una circunstancia, personas, un animal, un fenómeno meteorológico (entendidos como seres con capacidad para influir sobre las personas y sobre las cosas), etc., les han robado, o han hecho que pierdan el alma o el constituyente anímico–energético–vital capaz de mantenerlos unidos al mundo y operativos en su grupo. Algunos de mis informantes etnomédicos aseguran que el “susto” no curado puede evolucionar terminando en la muerte del paciente. Opinan también que los remedios occidentales son en su mayoría ineficaces cuando se trata de “susto”; y que sólo la hábil intervención del especialista o de otra persona conocedora de los procedimientos tradicionales de atención pueden parar la evolución y/o solucionar el problema. Dentro de la clase científica mexicana también hay quienes hablan con gran respeto del “susto”, bien por haber padecido experiencias personalmente, bien por haberlas visto en personas próximas. Mis informantes me relataron algunas de ellas sin tener una explicación logico–científica para los hechos narrados.
El “aire” es otro problema de nosología indígena: tiene el sentido de “soplo energético”, “mágico aliento” frecuentemente de connotación negativa (“mal aire”). Consiste, pues, según las tradiciones locales, en la afectación de la persona por “energías” provenientes de miradas–pensamientos, de la tierra, de la proximidad a áreas malsanas, aguas estancadas, basuras o espacios calificados de impuros o perjudiciales desde el punto de vista tradicional (simbólico). De hecho, cuando se adquiere con las miradas malas de las gentes, el mal “aire” coincide con el “mal de ojo”. Puede pensarse bien o mal de quien se mira. En todo caso, esos pensamientos pueden trasladarse como “energías” produciendo “aire”. Lilian Scheffler dice que el “mal aire” se adquiere al pasar cerca del panteón o si una persona, por causar mal, pone huesos de muerto o tierra del cementerio en la casa y también se cura con “limpias” practicadas por especialistas (Scheffler, 2003: 28).
En la cura, casi siempre, de todos modos, se da suma importancia al aspecto religioso, ya que hay la creencia de que al final lo que quiere Dios (o, politeísticamente hablando, las divinidades) influye sobre lo demás. De tal manera, un simple dolor de cabeza no es visto sólo como un simple mal de cabeza sino como una molestia que ha podido ocurrir por varias razones, frecuentemente conjuntas, cuya resolución necesita de todos modos la ayuda de Dios. El ser humano, finalmente, no depende de lo que use para reequilibrar la balanza sino de lo que Dios diga o decrete para él y para su futuro. Si la divinidad decide que se salve, el humano encontrará los medios para salvarse. Si la divinidad decide que muera, ningún medio, tradicional o moderno, lo librará del “fatal” destino (o designio). Así es que, ¿qué hacemos aquí?, según las creencias tradicionales. Acongoja meterse en ese contexto de pensamiento. Somos, como decían los antiguos amerindios, simples “caminos de dioses”, “pasos de esencias superiores”, “estaciones de resposo o de cambio” en las que las potencias divinas “reponen fuerzas” antes de seguir su camino. Así lo entendían los aztecas y otros pueblos locales cuando hacían morir a los “encarnados divinos” para ayudar a renacer a los dioses que vivían en ellos (o en los que se convertían temporalmente). Era necesario ayudar al dios, matándolo; o dicho de otra manera, acabando con la vida del soporte humano que lo albergaba (o con el que se había fundido). Y había muchos tipos de muerte, dependiendo de las fechas del calendario y de las celebraciones. También dependían los modos de dar muerte a los “desdichados” soportes humanos de la importancia del dios, de sus funciones y de otros matices de la compleja organización y estructura de los sacrificios. Todo estaba “escrito” y tipificado. Nada, o muy pocas cosas, se dejaban al azar. Los ciclos y los cielos mandaban y con ellos los rituales tantas y tantas veces celebrados. Los oficiantes encargados de dar la muerte tenían un profundo conocimiento del cuerpo humano por lo que, si lo deseaban, podían hacer su trabajo minimizando el dolor y el sufrimiento del sacrificado. Se utilizaban productos adormecedores como el vino de agave (pulque) para determinados candidatos o circunstancias. Los sacrificios humanos eran espectáculo en tanto y cuanto congregaban a las gentes a presenciarlos. Pero eran, esencialmente, procedimientos técnicos, “limpias” especiales con las que producir la muerte necesaria para renacer y así ayudar a perpetuar el movimiento constante de la “renovación” obligada y continua (“eterna”) del contexto divino. Esas “limpias” de sangre y con sangre nos repugnan desde nuestra perspectiva actual; sin embargo, eran para los aztecas una “necesidad” movida por el miedo a qué ocurriría si se detuviese el ciclo de la renovación muerte–renacimiento. Los dioses debían estar atendidos en todo momento, y había muchos. Se necesitaban, pues, muchos humanos para ofrecer. Algunos, como hemos dicho, convirtiéndose en dioses momentáneamente (ya que no se podía dar muerte a un dios de otra manera que a través de la corporeidad humana); otros, para ser ofrecidos pidiendo ayuda, clemencia o tranquilidad a dioses más “enfadosos” e “irascibles”. Algunos candidatos eran locales; otros, capturados en las luchas y guerras con los vecinos. La finalidad de la guerra era conseguir “prisioneros”, material humano para cumplir con las festividades sagradas y los rituales necesarios.
La vida humana, física, como objetivo, el trabajo por conservar la integridad estructural del cuerpo, eran también fines nobles y de primer orden dentro de la organización social de los aztecas. Incluso se utilizaban todos los medios al alcance para ayudar a sanar a un candidato a sacrificio, sobre todo si era un “encarnado” de nacimiento, cuidado, atendido, mimado y alimentado a lo largo de su existencia terrenal para llegar al momento de ser muerto en una fecha concreta y así liberar al dios que representaba o que era (dentro del “olvido humano”). Sin embargo, no estaba reñido lo uno con lo otro. Por encima de todo estaban los sacrificios, dentro de los que ubicamos ese principio de la “limpia” expresado de manera muy clara en el baño temazcal: eliminar lo viejo para hacer aparecer lo nuevo del ser; quitar los males que le entoropecen avanzar por el camino hacia la “renovación”, con muerte real en tiempos aztecas, con “muerte” simbólica posteriormente y en nuestros días. El Códice Florentino de Sahagún abunda en detalles sobre esas prácticas y las normas que las regían en época prehispánica. Y en la sociedad azteca se aprovechaba todo. No se desperdiciaban los cuerpos de los matados, que eran reclamados o adquiridos por personalidades o familias para realizar banquetes en casa y festejar el día alimentando a los invitados, familiares y amigos congregados.
La vieja idea, pues, del concurso divino en el bienestar humano sigue presente entre las gentes de las etnias mesoamericanas como hemos comprobado; incluso traspasada a las tradiciones de la sociedad mestiza y urbana. Hacemos aquello que se nos permite hacer, señalan algunos etnomédicos oaxaqueños refiriéndose a la relación con las “esferas superiores”. Por eso necesitamos incluir en muchos de nuestros trabajos rezos, peticiones, ofrendas y toda clase de signos que llamen la atención a Dios, Santa María y los santos para que nos concedan lo que les solicitamos.
Comenta Don Isaías, por ejemplo, que en última instancia, si morimos pues tampoco pasa nada; volvemos al origen, allá de donde vinimos, al Padre. No hay que tener miedo, señala. En la tradición mestiza que representa ese sanador, ¿no vemos algo cercano a lo que se puede leer en el códice de Sahagún y que hemos resumido brevemente en las líneas anteriores? Morir, volver al origen, regresar al Padre. Nos habla Don Isaías del ciclo vital superior (ciclo de vaivén). En él se dan varios tipos de “muerte”: la de las enfermedades que como obstáculos hay que eliminar porque impiden al humano seguir su camino; y la muerte física, final del trayecto marcado para cada uno en este mundo según las creencias tradicionales. Aquí las enfermedades (cuando la persona muere por ellas) cumplen el papel de “matadoras”, necesidad para “limpiar” otra cosa y volver al principio; y así una y otra vez. “Limpiar” para Don Isaías es acabar con algo, si se dicide en las esferas superiores, que debía “morir” (la propia enfermedad como ente) permitiendo al enfermo liberarse y renovarse para seguir el trayecto de su vida hasta que la “otra muerte” lo libere para “otros menesteres”.
             PLANTAS. La cura tradicional con las plantas medicinales (llamada “etnofarmacología”) en Mesoamérica obedece a múltiples parámetros. Después de dar un diagnóstico de enfermedad orgánica, de parte da la gente común el uso de las hierbas es principalmente propuesto de manera alópata (fitoterapia), donde la elección de la plantas a usar es de tipo empírico en el sentido de experimental. Pese a esta frecuente evidencia, las plantas empleadas pueden ser elegidas según la naturaleza “fría” o “caliente” de la enfermedad, la parte del cuerpo afectada, el día y el contexto en que esa enfermedad ha surgido. Pues este enfoque no resulta exactamente correspondiente a la alopatía actualmente entendida, pero sí la supera ya que mejora la elección vegetal volviéndola más específica a cada caso clínico aunque se trate del mismo sujeto (en momentos o casos diferentes). La planta medicinal es, por lo tanto, concebida como aportadora, al cuerpo, de un salutífero mensaje energético, de una especie de vibración sanadora, un poco como acontece según la moderna floriterapia; aun más, siempre según la cosmovisión meramente indígena, al vegetal se le otorga un valor panteísta, como si fuese impregnado de lo divino, de ese espíritu que vibra en todas cosas aunque de apariencia no animada (Di Ludovico, 2009).
             María Alice Campos Freire expresa (en el libro de Carol Schaeffer, 2008: 115): Incorporar las propiedades de la planta a una píldora es mucho menos efectivo que utilizar la planta en su estado natural porque la fuerza vital de la planta, un elemento esencial para la curación, se destruye con el formato de la píldora.
             La fuerza vital a la que se refiere María Alice, representante del Santo Daime en la serva amazónica es esa energía superior que anima todo lo creado y que cobra carácter especial en cada ser (persona, animal, planta) y en cada cosa (minerales, espacios naturales, espacios humanos, etc.), pero que no se trasfiere a los productos elaborados por la industria farmacéutica al parecer. Ésos, pueden tener sus propias “ánimas” aunque no conozco estudios al respecto.
             No es, pues, infrecuente que en las etnomedicinas mesoamericanas los informes sobre las causas de unas enfermedades se busquen a través de la intervención del mundo espiritual, sobre todo cuando se sospecha que el origen del malestar es divino; en este caso, se vuelve práctica común que el terapeuta religioso (chamán en primis) use plantas[6] capaces de alterar el estado de su conciencia para que él pueda hacer filantrópica incursión en el universo trascendente donde pedir a Dios el cómo y el por qué del aciago acontecimiento. Otras plantas son donadas en ofrendas o en ocasión de liturgias, otras tienen finalidad adivinatoria. En estos casos, diferentes pero todos dirigidos a preservar de manera religiosa el estado de bienestar, el mundo vegetal se vuelve mediador entre el hombre y lo divino, tanto para agradecerle o halagarlo como para conocer. Cuando, por otra parte, la sospecha de una enfermedad es la magia, el paciente o sus familiares se orientan especialmente a un curandero que proponga como cura una “limpia” hecha significativamente con rezos y hierbas. De todos modos, debido al hecho de otorgar, tanto por parte de la pagana religiosidad indígena como de la del ibérico estado eclesial, suma importancia al aspecto religioso, casi siempre en tierra novohispana se dan propuestas terapéuticas que tomen en cuenta lo divino, sea de forma sincrética o de forma meramente pre/pos–conquista. Hoy, después de quinientos años de compleja integración con los aportes europeos, son de hecho rodeados por una nueva flora, que ya ha adquirido un carácter de nacionalidad, aquellos muchos árboles y plantas medicinales autóctonos, vestigios de un antiguo paraíso, cuyo cultivo permitió la realización de mercados para el ejercicio formal de la medicina indígena, y que hace tiempo brotaban maravillosamente de jardines admirables y de colecciones escrupulosamente cuidadas (Di Ludovico, 2009).
CONCLUSIÓN. Como conclusión, podríamos pensar muchas cosas sobre la enfermedad, el bienestar y la cura en el contexto de las tradiciones mesoamericanas. Mejor nos ceñimos a lo que encontramos en libros como el códice Florentino (hablando de época azteca) y a lo que nuestros informantes locales nos cuentan. Es complejo y difícil para nuestras mentes occidentales y científicas. Haciendo un ejercicio de humildad tal vez podamos acercarnos a comprenderlo a través de interpretaciones próximas a las de los informantes (dadas por “traductores culturales” colaboradores que conozcan ambas culturas y ambos mundos). En todo caso, creo, esa misma comprensión es experiencia, lo que implica la posibilidad de obtener una variedad de relatos provenientes de distintos observadores externos, válidos todos ellos desde la óptica antropológica si son honestos y se usan para contrastar con otros con el fin de obtener las interpretaciones (nuestras, finales) más próximas a lo que los miembros de las culturas que estudiamos nos cuentan. Lo que está claro es que lo que nosotros entendemos como una mala digestión sin más por comer demasiado o con prisa o por comer determinadas cosas, no es igual a lo que un miembro de una sociedad tradicional entiende, apoyado en su llamémosla cultura de la salud. Hemos tenido ocasión de comprobarlo. E incluso hemos hecho experimentos constatándolo. En nuestro contexto (occidental, racional, científico), excluidas otras causas y no viéndose más implicaciones, la “culpa” del mal, por así llamarla, es nuestra actitud (interacción nerviosa si comemos con prisas) o una mala elección de la comida, o un empacho sin más. En el contexto de nuestros amigos (mesoamericanos) puede ser eso y algo más. De este “algo más” es de lo que hablamos a lo largo de todo el libro, junto con otras cosas.





[1] En aparente acuerdo a los dictámenes de los dos tipos mayores de física: aquélla cuántica por lo invisible/subatómico, la otra clásica por lo cotidiano/macroscópico. Regidas por leyes diferentes, parecen no tener puntos de contacto pese al obvio sustrato microscópico de lo visible, otorgando así una relación paradójica (occidentalmente hablando pero no según los nativos amerindios) entre la materia imperceptible y la observable.
[2] Principal entidad anímica, especie de aura. Véase en seguida.
[3] Ejemplos son: el ajenjo (Artemisia absinthium), las mentas (Mentha piperita, citrata, sativa), el epazote (Chenopodium ambrosioides), los toloaches o floripondios (Datura/Brugmansia spp.), el tabaco (Nicotiana tabacum), el café.
[4] Entre estas: la hoja santa (Piper sanctum), el atomate (Physalis philadelphica), el tepezcohuite (Mimosa tenuiflora), la siempreviva (Sedum dendroideum), la bugambilla.
[5] Meras maneras discursivas, modos de comunicación y de comprensión de la realidad; procedimientos dialécticos de organización de lo que llamamos realidad objetiva en el pensamiento.
[6] Como ya hemos expuesto, son llamadas “enteógenas” (“de las cuales surge lo divino”, “que sacan lo divino que está en nosotros”) o comúnmente “alucinógenas”.

jueves, 27 de febrero de 2014

*FEMENINOLOGÍA. Nota (38) (Osvaldo Buscaya. Argentina)



*FEMENINOLOGÍA

*Ciencia de lo femenino
Postulado: la irresoluble perversión no sublimada y ambigüedad sexual del varón
Las fuertes resistencias contra lo femenino no serían de índole intelectual, sino que proceden de fuentes afectivas; la irresoluble perversión no sublimada y ambigüedad sexual del varón que posee la decisión final en éste esquema, donde lo masculino sigue siendo la ley.
(Osvaldo Buscaya)

Femeninologia
Nota (38)
La perversa civilización patriarcal, se nos opone con la objeción siguiente: Que hasta los escépticos más empedernidos reconocen que las afirmaciones de la cultura, ética y moral del patriarcado no pueden ser rebatidas, teniendo a su favor la tradición y la conformidad de todos los varones.
Sin embargo desde los albores del feminismo, hoy, no están en condiciones las mujeres de complacerse en engañarse a sí misma, suponiendo que con estos “fundamentos” del perverso patriarcado se sigue una trayectoria mental plenamente correcta: Hoy, el feminismo no puede conducirse ni basar sus juicios y opiniones en “fundamentos” tan pobres.
En lo que atañe a los “fundamentos” del perverso patriarcado, el varón se hace culpable de un sinnúmero de insinceridades y de vicios intelectuales, pues forzando el significado de su “superioridad”, hoy, nada se conservó de su primitivo sentido y es la situación favorable para el feminismo en su camino al poder y derrotar al perverso patriarcado, pues el varón ha forzado el significado de las palabras durante la historia que, hoy, para el feminismo no conservan veracidad alguna, al dar el nombre de superioridad al carácter del varón: Vaga abstracción por ellos creada y se presentan, jactándose de su ética y moral machista en “contacto” con Dios representándolo, que podemos reconocer como delirante ilusión en cuanto a su naturaleza psicológica.
Sabemos que a partir de la rebelión de los varones en la horda primitiva, fueron creadas las “doctrinas” que generan el Tabú y el totemismo arribando al Dios – varón, jactándose del cristianismo con el Papa – varón: La perversa civilización patriarcal y su “patrimonio cultural” a los que concede muy alto valor, rige nuestras vidas con premisas que fundan las instituciones del perverso patriarcado, que no califican de “ilusiones” y las relaciones entre los sexos aparecen perturbadas, en nuestra civilización, por toda una serie de “ilusiones” eróticas que “satisfacen” sobre la esclava – mujer -- objeto.
La transmisión histórica oral a la actualidad nos permite ser contemporáneos desde los “inicios de la civilización”, abarcando y mutando con los variados cambios de las “verdades absolutas”, que correspondían a cada época, y como “viajeros” de los tiempos considerando, los varones, la “normalidad cultural” de la explotación y el sometimiento como una “lucha” de poder entre varones privilegiados y varones desposeídos: No encontrando en nuestro “viaje”, a través de la historia, a la mujer – objeto – esclava en un activo rol dentro de ésta “lucha” por el poder; la mujer tenía y tiene, “adaptándola” el perverso patriarcado en los tiempos históricos, el “rol” de mantener en condiciones el fuego de la hoguera.
El “rol” relevante de la mujer fue y es con el avance de los tiempos, tal lo podemos apreciar en nuestro rol de viajero temporal, la culpable de la pérdida del paraíso arribando a la Inquisición, etc., por tanto, una vez despierta mi desconfianza, no debo retroceder siquiera ante la sospecha que, tampoco posea fundamentos sólidos mi convicción sobre la observación y el pensamiento aplicados a la investigación científica, basada en el psicoanálisis, que permite alzar el velo encubridor del perverso irresoluble y ambiguo sexual varón, que impone la ley.
Lo que llevo dicho contra el perverso patriarcado, como verdad, no ha precisado para nada de mi Ciencia de lo femenino (Femeninologia), que ha sido alegado ya, mucho antes de su nacimiento por el feminismo.
La aplicación de mi Ciencia de lo femenino (Femeninologia), proporciona un nuevo argumento contra la perversa civilización patriarcal.
El perverso patriarcado se atribuye haber prestado grandes “servicios” a la civilización humana (del varón) contribuyendo a dominar lo “antisocial”, rigiendo duramente muchos milenios la sociedad humana (del varón): Pero si hubiese, el perverso patriarcado, podido reconciliar con la vida, no hubiera ocurrido la reacción del feminismo, con integrantes de más de la mitad de la población subhumana (la mujer), al considerar su situación como un yugo del que anhela liberarse: Mujer que debe consagrar todas sus fuerzas para conseguir una “mudanza” del hostil perverso patriarcado, hasta el punto de no querer saber nada de sus preceptos, ni considerar inferior lo femenino.

Buenos Aires
Argentina
28 de enero de 2014
Osvaldo Buscaya (Bya)
(Psicoanalítico)
Femeninologia
Lo femenino es el camino
femeninologia@yahoo.com.ar

miércoles, 5 de febrero de 2014

LA EXPERIENCIA DE LA AYAHUASCA

Por: Francesco Di Ludovico (texto & imágenes).
(médico e investigador en etnofarmacología y etnobotánica).

Queda prohibida toda reproducción, tanto de textos como de imágenes. Ambos son propiedad de los autores.

INTRODUCCIÓN.
De nuevo me complace traer a estas páginas otro texto de mi colega de investigación y amigo el Dr. Di Ludovico quien, en su reciente viaje al Brasil tomó contacto directo con una de las tradiciones más antiguas de los grupos originarios locales: la interacción con la Ayahuasca como maestra y curadora a través del preparado realizado por locales. El Dr. Di Ludovico y un servidor publicamos el año pasado en Italia (Aracne Editrice) un libro sobre enteógenos, desde una perspectiva un poco distinta a las convencionales. Estamos traduciéndolo al castellano con su correspondiente variación por revisión e incorporación de algún contenido nuevo. A los antropólogos e investigadores afines nos parece necesario conocer el objeto de estudio no sólo desde la perspectiva de quienes forman parte de la cultura de dicho objeto (informantes locales) sino también desde la nuestra como observadores participantes; es decir, como experimentadores previo conocimiento de las gentes y de las culturas que estudiamos; o al menos, previo acercamiento a dicho conocimiento. Es lo que hizo el Dr. Di Ludovico en esta ocasión sin ánimo de explicar nada. Sólo como alguien que se acerca con todo el respeto y complacencia de los locales a algo que se estudia y guiado siempre por la mano experta de los conocedores culturales originarios. Se trata pues de una experiencia personal que, pasada por el tamiz de la formación médica y antropológica, nos aporta una información interesante y valiosa de contraste cultural que formará parte, junto con otras experiencias, de la edición en castellano de "las plantas de los dioses" de próxima aparición.
Sin embargo, nuestro relator desea que se muestre aquí tal cual, limpia, sin análisis, sin aderezos o revisiones intelectuales ningunas. 
Damos las gracias al Dr. André Gomez Dos Santos quien hizo posible el experimento. Damos las gracias al propio Dr. Di Ludovico por la amabilidad de compartir con los lectores de este blog su experiencia.
(Alfonso J. Aparicio Mena).


EL RELATO.
«Hicimos muchas actividades hasta ahora. Hoy vamos a ver la colina de J.». Así me dijo A., invitándome a la enésima aventura hacia el conocimiento de la pródiga naturaleza brasileña. 

Aunque no comprendiera exactamente qué podía representar una excursión tal, acepté con gusto. Colinas, montículos y análogos me han ejercido siempre gran atractivo, quizá por la gana que dan de llegar a su cumbre, así como por el desafío que supone una naturaleza ardua y difícil de "domar". También por el deseo infantil de encontrar algo allí. 
La tarde era cálida, excitada por las risas de unos niños vivaces y por las ráfagas del viento ligero que iba vago sin destino alguno pero trayendo consigo el olor marino del océano. Y por los lenguajes animales: arcanos, libres, respetuosos. Los cantos de pájaros volando cerca de nosotros y el chirriar de cigarras plácidas arriba de las altísimas palmeras nos acompañaron a lo largo de todo el recorrido. 
Aproximadamente 15 minutos de bicicleta y llegamos. 
La cumbre. Un jardín de una casa particular; unas charlas de A. con el dueño. «Regresamos», me dijo después de unos minutos. Bueno, ya. «Bonito jardín», me dije; «plantas tropicales bien colocadas en cuadros que dejan bastante espacio entre ellos; bambúes y mucha sombra. Unas flores de cemento de colores, bonita vista al mar; un dueño que no me habló, quizá por que se dio cuenta que no hablo portugués». Me fui sin ganas de volver ahí; lo visto era agradable y advertí que no tenía la necesidad de ser conocido. 
Nada más regresar, nos paramos delante de un portón allí cerca, que poco antes no vi. «Es la entrada de otra casa». El portón estaba abierto, señal tácita de bienvenida a cualquier persona y animal que quisiera pasar el umbral. Aquí nadie. Un sendero estrecho entre una vegetación espesa, arbustos diferentes de aquellos vistos hasta ese momento; unos CD y adornos navideños colgados en unas ramas, reflejando luz polícroma de cualquier fuente luminosa que los alcanzara; un canto lejano, música leve. Sillas de colores, una cabaña; y por fin personas. Nos saludaron como si nos conocieran de toda la vida y como si nos estuvieran esperando, hablándonos directos, sin ninguna de esas formalidades poco sensatas a las cuales estamos acostumbrados. 
«Hola, ¡qué tal! Estamos preparando la velada. Os esperamos esta noche.» ¿Velada? ¿Y regresar? A. me explicó: «¡Qué suerte! Esta noche misma van a celebrar el culto del Daime. Estaba planeado para otro día. Claro signo de que debemos participar; además nos están invitando». Era mi intención ser espectador de una "velada"; «quizá esta vez, tan vaticinada por el destino fausto, sea la ocasión para participar de una manera activa». Nos encargaron la compra de unas velas y un poco de pan. Regresamos al pueblo, hicimos las compras, volvimos a la casa, comimos un poco de fruta; y ya hacia la colina con las bicicletas. Las nueve de la noche; dejada la calle principal, oscuridad absoluta. La subida hacia la cumbre la recorrimos con esa excitación de los exploradores más aventureros. El zumbido de las hojas trémulas con el viento nocturno acompañó los latidos de nuestros corazones. 
Esta vez el portón estaba cerrado; pero A. pudo abrir el pestillo del interior con su mano ya que los listones permitían espacios vacíos. ...Pasaje cerrado al "profano", pero fácil de atravesar por quien lo quiera... 
En el suelo un fuego de leñas ardientes; arriba un calderón ahumando. La misma gente; caras serenas, sonrientes, discretas. La oficiante G. sentada en su silla de colores, nos dio tranquilamente la bienvenida. Un anciano hombre, L., que descubrimos ser un chamán, nos saludó contándonos sus aventuras curanderas en la Amazonía. Unos jóvenes antropólogos, y nuestro amigo R. que vendría más tarde y por el cual ésta sería su primera vez participando al culto del Santo Daime (pues no me sentía el único). Y niños: los hijos de la oficiante; presencia que me dio aún más serenidad, como si estuviéramos en familia. 
Nos pusimos en círculo, alrededor del fuego. Dejamos nuestros zapatos a un lado del mismo. Hacía mucho tiempo que mis pies no tocaban directamente el suelo. Ese diálogo mudo entre mi cuerpo y la tierra me entregó una energía vital, corroborando que soy objetivamente parte de la naturaleza. 
Empezamos rezando; rezos cristiano-católicos: tres Ave Marías y tres Padre nuestros alternados. El chamán añadió un agradecimiento a unas plantas (ingredientes del brebaje que tomaríamos) y a dos personajes: a la dueña del mar y a un hombre realmente existido ("Personaje importante del Daime", me dijeron). El brebaje... Nos invitaron a ponernos en fila para recibir la pócima sagrada. Era la poción que poco antes vi cocerse en el calderón; líquido denso, color café, chocolate al parecer. Mi turno. G. me miró a los ojos, como una madre solícita: «... Feliz viaje». Tomé un vaso; sabor avinagrado, sabor a esperanza, a agradecimiento por estar ahí, a felicidad de poder recibir mensajes de parte de mi conciencia. Ningún miedo; ninguna elucubración filosófica. Abandono y serenidad. 
Seguimos rezando, cantando, agradeciendo a las plantas sagradas que constituían el brebaje: "liana del vino del espíritu", "jurema" y "chacruna".
Mis conocimientos etnobotánicos me tradujeron que la pócima era constituida, pues, por la liana de ayahuasca (Banosteriopsis c.), por la corteza de Mimosa tenuiflora y por las hojas de Psychotria v.
Sin embargo, no quise ni pensar cómo estaban actuando biológicamente los principios activos de dichas plantas. Dejé que mi mente fuera serena y vacía, tranquilamente receptiva. 
Después de una media hora las estrellas me parecieron más brillantes, y las ramas de los árboles comunicativas...


Llegadas las 11 de la noche, nos invitaron a tomar el segundo vaso de la pócima sagrada. Bebí con más serenidad y felicidad aún. Regresado a mi asiento, mis ojos se fijaron en las brazas ardientes del fuego. De ahí salieron figuras tridimensionales, siempre comunicando un sentido. Una calavera sonriente me "dijo" que la vida y la muerte son hermanas: que somos muertos vivientes. Unas rocas que limitaban el fogón me "dijeron" que Dios es también un cómico y le gusta reír y quiere que hagamos lo mismo. Vi una especie de espiral de ADN hecha de perlas claras; visión muy fugaz. Y vi mis padres cuando decidieron darme la vida: caricias y sonrisas en una cama me comunicaron su dicha...
El tercer vaso de pócima. No todos quisieron tomar. Yo sí, pues no me sentía mal ni tenía efectos indeseados; sólo una ligera ebriedad, pero más controlada que aquella procurada por el vino: sin embargo, al regresar de la "velada" no pude ir en bicicleta sino caminado.
Ahora me puse en una hamaca. Cerré los ojos; el viento y las estrellas eran mis únicos compañeros externos. Pero en mi interior había mucha más vida. Vi un reloj y sus manecillas brillantes como oro que se movían vibrando. Me "comunicó" ser el reloj de la vida, y que yo estoy a la mitad de la mía. "Sentí" que tenemos un tiempo dado para vivir en este mundo. Vi el minutero fijo a las 9 horas y fui "sustraído" por una especie de tristeza: adelantarnos en tal tiempo nos es posible, según nuestro comportamiento voluntario; pues es una libre elección "quemar el tiempo" que nos es donado. "Advertí" que con un uso sensato (sabio, consciente) de la vida, ese tiempo lo vivimos todo y pues hacemos más experiencias; de caso contrario, "quemamos las etapas" y desperdiciamos lo que nos ha sido donado. La visión me "comunicó" que la vida nos ha sido dada para que hagamos experiencia. Y regresó a mi vista interior la calavera que antes vi en el fuego, ahora danzante y riente: somos muertos celebrantes. Me "dijo" que para ser felices se debería de agradecer constantemente el aquí-y-ahora y comprender que todo pasa en el justo momento; y si nos rendimos con fe a cada acontecimiento, podemos aprender mejor (más genuinamente) y más rápidamente. Cada momento lo deberíamos vivir en celebración, en eterno agradecimiento; como las ramas de los arboles, que casi siempre se extienden hacia arriba, hacia la Luz del Sol en el día, y de los astros sin número en la que llaman "oscuridad".

martes, 7 de enero de 2014

“Le piante degli dèi. L'uso sacro degli allucinogeni vegetali”

Introducción.
El siguiente texto es un extracto del libro: “Le piante degli dèi. L'uso sacro degli allucinogeni vegetali”. Autores: F. Di Ludovico, Alfonso J. Aparicio Mena. Aracne Ed., Roma, Italia. 2012.

(Todos los derechos reservados)

In America. Introduzione.
Prima di tutto precisiamo ciò di cui parleremo in questo paragrafo, poiché su questo tema si è scritto molto. Qui tratteremo del consumo di determinati mezzi estatici come un ulteriore tratto distintivo dei caratteri culturali di popolazioni dello Stato messicano di Oaxaca. La nostra esposizione si presenta attraverso un discorso esplicativo e didattico piuttosto che tecnico–concettuale di tipo filosofico o biologico, usando gli strumenti dell’analisi critico–culturale antropologica. Affrontiamo lo studio, dunque, con un approccio sociobioecoculturale dando importanza all’informazione etnografica. Diamo risalto al valore di determinate pratiche ed esperienze (locali e riguardo al benessere e alla salute delle persone) come una manifestazione di individualità tradizionali, un sostegno all’identità e alla sopravvivenza delle popolazioni.
Come dietro al mondo visibile e tangibile si nascondono, per gli indigeni mesoamericani, innumerevoli energie e poteri che determinano le vie degli accadimenti, così l’esperienza umana si diversifica relegandosi in altre dimensioni del mondo reale, le quali danno una particolare profondità e un’ineguagliabile ricchezza alla vita. Il pensiero religioso di queste etnie concepisce spazi e soglie che possono essere scorti e varcati soltanto in occasione di particolari condizioni (come quelle che la società occidentale chiama «stati alterati della coscienza»): alcuni uomini riescono ad attraversarli, e così acquisiscono poteri sovrannaturali. Tali condizioni, nelle quali si dà vita a bizzarre esperienze e che permettono l’accesso ad àmbiti distinti dal mondo dell’esperienza consueta, si producono, secondo queste genti, quando lo “spirito” (entità immateriale e trascendente) si distacca dal corpo: è un’evenienza che può capitare per vari motivi e in particolari circostanze della vita[1]. Tra le forme di separazione dello “spirito” dal corpo spiccano il sogno e la trance estatica, stati che, in accordo al significato che possiedono per gli indigeni, piuttosto che irrazionali potrebbero essere considerati sovra–coscienti Pertanto, secondo l’indigeno l’Uomo è un essere capace di transitare attraverso àmbiti misteriosi e straordinari, trascendendo la propria limitazione fisica e spaziale; quindi egli è concepito come un essere duale, le cui componenti, opposte e complementari, non sempre rimangono unite durante la vita ma si separano definitivamente alla morte del corpo. Un esempio ordinario di separazione intenzionale dello “spirito” è la trance estatica, provocata da pratiche ascetiche varie (meditazione, canti ritmici, autoipnotismo, digiuno prolungato etc.) e, in modo più facile e diretto, dall’uso di funghi e vegetali psicoattivi. Dunque, i sogni e la trance estatica sono per gli autoctoni mesoamericani una sorta di trasferimento (volontario o no) dello “spirito” grazie ai quali esso può dirigersi verso altre sfere della realtà, spesso concepite come sedi degli Esseri divini; e quelle peculiari piante, convenientemente in mano di saggi come gli sciamani, che aiutano l’Uomo a introdursi in tali àmbiti sono state a buon diritto considerate divine[2].
Esaminando il significato che si attribuisce ancor oggi all’attività onirica da parte delle popolazioni aborigene dell’America centrale, possiamo riassumere che il sogno: 1) non è concepito dissimile dalla realtà oggettiva: esso è, semmai, una realtà vissuta (dallo “spirito”) in altre sedi (ultramondane) intanto che il corpo è in uno stato di coscienza trasformato; 2) è interpretato, quindi, come l’allontanamento dello “spirito” da questo mondo; 3) qualora indotto, porta lo “spirito” del fruitore/sciamano in territori sacri, affinché costui riceva messaggi da parte degli dèi o dei propri avi; 4) possiede una valenza eminentemente ausiliatrice (terapeutica, divinatoria etc.), poiché la conversazione ultramondana in cui lo sciamano si intrattiene con gli dèi/avi è frequentemente finalizzata alla conoscenza della diagnosi e della cura di un paziente o all’acquisizione di suggerimenti per risolvere una questione che affligge le sue genti, oppure, meno di frequente, per ricevere nozioni sagge o conoscere l’occulto.
Partendo dalle premesse fatte e tramite il lavoro sul campo, constatiamo che esistono in determinati gruppi umani persone che affermano di oltrepassare la barriera del sensoriale addentrandosi in mondi non retti da leggi fisiche —o che, per lo meno, finora conosciamo come classiche. Tali persone utilizzano vari mezzi e procedimenti affinché —a detta loro— superino i limiti della percezione sensoriale e sfocino in spazi, mondi ed àmbiti —giusto per volerli chiamare in qualche modo— che noi qui abbiamo ascritto alla denominazione generica, ampia e simbolica di “sogni”[3]. In qualità di antropologi cadremmo in errore (d’impostazione di studio) se per comprendere tali fenomeni utilizzassimo il criterio di paragone proprio della scienza positiva. La nostra missione è osservare, cercare di capire attraverso l’esperienza (partecipazione relativa), ascoltare ciò che ci viene riferito, analizzare e riflettere per poi comporre un’etnografia che trasferisca all’interessato le realtà esperite e/o comunicate. È ciò che cercheremo di fare nelle seguenti pagine.
Da poco condotta un’analisi sul campo nello Stato di Oaxaca sui “mezzi estatici” vegetali utilizzati dalle popolazioni autoctone, come coautore riferisco quanto segue in questi paragrafi. Nello Stato di Oaxaca mi hanno spesso detto che è finito il tempo degli sciamani, e che quelli che rimangono (fra Zapotechi, Chatitos, Mixe etc.) sono specialisti locali o medici tradizionali dalle formazioni varie e dai molti poteri. Alcuni di costoro possono usare i “funghi” o altri mezzi per oltrepassare la barriera della coscienza ed arrivare così ad uno spazio di conoscenza diverso, in cui costoro sono–e–non–sono ciò che sono, però dal quale prendono ciò di cui necessitano: 1) per affrontare il problema che hanno difronte, 2) per avanzare nel cammino della saggezza. Tuttavia, secondo alcuni miei confidenti, gli sciamani in quanto tali, in Messico, sono esistiti fino alla curandera María Sabina[4]. Da quel momento tutto è cambiato. Mixe, Chatitos e Zapotechi mi hanno detto —ed io l’ho osservato— che per oltrepassare la barriera del sensoriale possono essere usati: a) mezzi provenienti dalla natura come la “Santa” (Salvia divinorum), i “funghetti” o “nanacates” (Psilocybe spp.: caerulescens, mexicana etc.) e certe bibite alcoliche, b) mezzi mentali/spirituali/culturali come la concentrazione (alla maniera dei Trinitari Spiritualisti Mariani della costa del Pacifico), le preghiere o l’induzione per mezzo della parola.
Esiste un altro mezzo/modo: il sogno naturale in cui lo specialista vive determinate situazioni o riceve informazioni, dritte e ordini per comportarsi di conseguenza. Ignacio Bernal (medico dello Stato di Oaxaca e specialista di culture indigene) mi ha ben confermato tale fatto. A volte, quanto esperito nel sogno è un codice che, decifrato da parte di uomini o donne saggi, apporta informazioni aggiuntive. Tale fu il caso di quando ho cominciato a frequentare Don Isaac, appartenente ai Trinitari Spiritualisti Mariani, nell’area mixteco–chatina del Pacifico dello Stato di Oaxaca. Fu una visita non annunciata. Quando mi presentai, egli mi disse che già sapeva che qualcuno stava per arrivare. Era addirittura in possesso delle mie generalità. Mi spiegò che aveva vissuto un sogno il cui significato era la mia visita.
Questo stesso specialista mi parlò di una forma di affrontare problemi importanti come il cancro a partire dal sogno naturale: «Dopo una preparazione preliminare, Lei mette in ordine l’abitazione, il letto e si veste con degli abiti affinché durante il sonno, nella notte, [i sogni] vengano ed operino contro il Suo male. È un modo di aiutare persone che non hanno i soldi per potersi permettere cure costose. Noi crediamo in questo». Dalle parole di Don Isaac ho tratto due conclusioni: 1°) che questo modo di “intervento spirituale” —per chiamarlo in qualche modo— aveva connotazioni sociali importanti (unione della terapia tradizionale mesoamericana con l’Uomo e col Gruppo: sostegno, protezione, aiuto, progresso, mantenimento del-l’identità e dell’integrità collettive etc.), 2°) che c’era da sperimentarlo, da osservatori esterni quali eravamo, per poter parlare direttamente di ciò. Più in là di queste idee non vado, dato che sono un antropologo. Non devo applicare nessun metro di giudizio, come già detto. Tutti sappiamo che nella cura influiscono molti fattori ed elementi: alcuni sono i mezzi terapeutici, altri sono invece difficili da precisare e identificare (appartenenti principalmente al terreno personale e culturale). La proposta di Don Isaac mi sembrò coerente col suo contesto culturale. In Mesoamerica ho visto che si conferisce grande importanza al sogno naturale: per curare, per ricevere informazioni di vari esseri, per mettersi in connessione con mondi non sensoriali, per dare dritte e consigli, per consultare, per prendere una scelta per qualcosa di personale o riguardo alla comunità, eccetera. Il sogno naturale è anche una porta d’accesso per dimensioni non fisiche e un ponte tra spazi di coscienza diversi ma assolutamente complementari. Per tale motivo, il “sogno dei funghi” o di altri vegetali (che quindi è un sogno indotto, un “sogno artificiale”) ha fatto bene presa sin da tempi immemorabili su queste popolazioni. Poco si è tuttavia studiato e conosciuto a proposito dell’ampia cultura del sogno in Mesoamerica[5].
Esistono molteplici mezzi per entrare in questo mondo speciale della conoscenza. In questa premessa, ci occuperemo tuttavia principalmente di quelli vegetali, chiamati nel Messico centrale «nanacates» (Psilocybe spp.) e la «Santa» (Salvia divinorum); insieme alle altre piante, li tratteremo nelle monografie ad essi specificamente dedicate nelle pagine dei capitoli seguenti.
L’avvicinamento alla comprensione di fenomeni umani di gruppo si espleta tramite un necessario ascolto delle spiegazioni e di ciò che viene riferito dai membri di questi gruppi. Quando non si tiene conto di questo principio (nella pianificazione di uno studio sui fatti umani) si corre il rischio di valutare con il nostro metro di giudizio ottenendo, così, informazioni distorte e senza diretta relazione con le esperienze dei protagonisti delle culture studiate. Quando gli spagnoli arrivarono in America, portarono il metro di giudizio proprio della loro terra d’origine e della loro cultura (delle loro convinzioni, sia ufficiali sia tradizionali). Ancora non esisteva l’antropologia né i suoi princìpi e insegnamenti per approcciarsi correttamente allo studio delle realtà umane. È difficile capire ciò che non abbiamo creato e alla cui comprensione accediamo partendo dalla nostra visione e dai nostri standard (educazione, credenze etc.). Questo è stato ciò che accadde quando gli osservatori spagnoli si avvicinarono alle tradizioni amerindie. Così si riflette nei resoconti lasciati dai compilatori.
A proposito dei mezzi estatici, Ricardo Herren evidenzia che molte narrazioni sulla cultura del consumo dei funghi fra gli amerindi, esposte da cronisti ecclesiastici o di rappresentanti ufficiali della Corona durante e dopo la conquista, associano l’esperienza estatica al-l’ebbrezza e a pratiche demoniache[6]. Lo stesso Sahagún il tema su funghi e varie piante usate per accedere nel regno soprannaturale della Grande Realtà da parte di specialisti locali lo presenta così nel suo Codice Fiorentino al settimo capitolo del libro XI: «Paragrafo primo, su certe erbe che ubriacano. C’è un’erba che si chiama “coatlxoxouhquij” e produce un seme detto “ololiuhquj”[7] o “coatl–xoxouhqui”. Questo seme rende ebbri e folli. Lo somministrano in pozioni per arrecare danno a coloro cui si vuol male, e a chi lo mangia appaiono visioni e cose spaventose. Lo danno da mangiare col cibo e da bere con le bevande i fattucchieri e chi odia qualcuno per fargli del male. Quest’erba è medicinale e il suo seme [è valido] contro la i reumatismi[8], macinandolo e mettendolo nella zona dov’è il reumatismo»[9]. La novità, il disconoscimento delle culture che incontrarono, la paura, la mancanza di confidenza e la mentalità dell’epoca (mentalità ufficiale associata alla religione cattolica), furono, a mio parere, i responsabili di tale visione. Ricordiamo che Sahagún fu tenuto sott’occhio da certi rappresentanti della Corona e della Chiesa a causa della sua “eccessiva dedizione” al lavoro di compilazione sulla cultura azteca. Consapevole della sua posizione (difficile), egli nei suoi scritti mise forse da parte gli aspetti più appariscenti, col fine che questi scritti potessero sopravvivere (cosa che è comunque stata un miracolo).
Lo studio successivo delle culture amerindie e un avvicinamento alle loro tradizioni privo di etichette di potere ed egemonia della cultura occidentale–cristiana ha offerto la possibilità ad una maggiore e migliore comprensione delle stesse e delle tradizioni sciamaniche; comprensione ben lungi da alcune delle spiegazioni degli europei giunti in America nel XV secolo. «Nel momento attuale, i funghi continuano ad essere utilizzati in Mesoamerica da parte degli indigeni e meticci, che li “consultano” interrogandoli sul futuro e su vari misteri oppure […vi] cercano soluzioni ai conflitti psichici che li tormentano. Servono poi per dare diagnosi e come medicine per malattie fisiche»[10]. Poco posso aggiungere a questa affermazione. Per ciò che ho visto, udito e per ciò che conosco a riguardo, è così.
Fra Bernardino de Sahagún scrive nel Codice Fiorentino: «C’è un’altra erba che si chiama “péyotl”[11]; è bianca, cresce circa nella zona del Nord; coloro che la mangiano o la bevono hanno visioni spaventose e ilari; quest’ebbrezza dura due o tre giorni, e dopo se ne va; [il Péyotl] è un bene comune dei Cicimechi, che li mantiene in salute e infonde loro coraggio per combattere e non aver paura né sete né fame, e si dice che li preservi da ogni pericolo»[12]. In questa narrazione trovo nozioni che ho udito da parte delle guaritrici–sciamane del Pacifico riguardo ai funghi: la loro capacità di far dimenticare la fame, la sete e la stanchezza. Possiamo continuare a leggere nell’opera di Sahagún: «Ci sono certi funghetti in questa terra che si chiamano “teonanácatl”: nascono sotto il fieno nei campi o nelle praterie, sono rotondi ed hanno il gambo altino e sottile e circolare; mangiati, hanno un sapore cattivo, arrecano danno alla gola ed ebbrezza; sono medicinali contro i calori e la “gotta” [i reumatismi, N.d.R.]; se ne possono mangiare non più di due o tre: coloro che li mangiano hanno visioni, ora spaventose ora ilari, e si sentono folli nel cuore; a coloro, quantunque pochi, che ne mangiano troppi provocano lussuria. E ai tipi folli e monelli si dice che abbiano mangiato il nanácatl»[13]. Sahagún descrive una grande varietà di funghi chiamati dai nativi «nanácatl», davanti al cui termine se ne pone un altro che indichi la differente specie o l’uso che se ne fa. Varie illustrazioni nel Codice Fiorentino fanno riferimento alle piante e ai funghi allucinogeni. Nel libro XI se ne può vedere una che rappresenta un campo di funghi sul quale fluttua una figura, facendo verosimilmente allusione alle visioni che produce l’ingestione dei nanácatl. Il libro di Sahagún ci fa avvicinare direttamente ad una realtà la cui “essenza” ancora vive, pur sincreticamente, nelle culture locali.
Il Dott. Juan De Cárdenas, nel XVI secolo, a proposito del Peyote scrive: «Si racconta in verità del Peyote, del Poyomate[14] e del-l’Ololiuhqui, che se si prendono per bocca, lo sciagurato che li assume lo fanno uscire di senno talmente tanto che, tra altre terribili e spaventose immagini fantasmatiche, gli si manifesta il demonio, ed [esse] gli comunicano —a quanto si dice— ciò che sta per accadere; e dev’essere tutto impronta e menzogna di Satana, la cui peculiarità è di ingannare col permesso divino il disgraziato che in simili occasioni lo cerca»[15].
Ci sono molti riferimenti di Juan De Cárdenas a casi riguardanti la divinazione, la cura e gli effetti strani dell’uso di materie animali, vegetali e minerali fatto da parte della popolazione indigena: l’Autore, spesso, non può che cercare di spiegarli e di chiarirli sotto la lente della propria cultura che è quella spagnola ufficiale; altre volte egli li espone e li riferisce così come gli venivano comunicati da parte degli informatori locali; realizzò pertanto un autentico lavoro etnografico. La comprensione dell’uso di una materia in un determinato gruppo è sempre relazionata alla conoscenza delle chiavi culturali di chi le utilizza. Risulta logico, dalla nostra recente panoramica, capire che alcuni cronisti e informatori spagnoli del XVI secolo riferissero gli effetti del consumo di certi funghi in relazione alla simbologia occidentale e cristiana del “demoniaco”. In realtà, osservavano persone in attitudini fuori dal razionale, cui nell’Europa ufficiale dal Medioevo si associò sempre il contatto con “il maligno”.
Ángel B. Espina Barrio (2002) dà risalto al lavoro di indigenisti come Sahagún, le cui informazioni hanno, fino ai giorni nostri, fatto conoscere aspetti importanti della cultura preispanica. Gastón Guzmán (1999) narra la propria esperienza dell’assunzione di funghetti fatta nelle vicinanze di Huautla (nello Stato di Oaxaca). Egli spiega che, quando aveva le visioni, era consapevole della propria ubicazione nell’abitazione e del fatto che stava avendo queste visioni.
L’Uomo occidentale, o formato in questa cultura, nel riferirsi all’esperienza utilizza immagini discorsive razionali; nell’arte e nella poesia si utilizzano, invece, simboli. Le signore che conobbi a Nopala e provincia mi riferirono che l’esperienza con i funghetti era indistin-ta dal vissuto consapevole. La motivazione sta nel concetto della Grande Realtà, in cui i piani espressivi della vita e degli esseri si fondono accreditando come informazione trasmissibile il vissuto senza necessità di parcellizzare, differenziare e analizzare, procedimenti abituali della mente razionale di taglio ellenico.
Negli anni trascorsi dall’arrivo degli europei in America, supponiamo che ancora si conservino elementi particolari della cultura tradizionale di salute e dello sciamanismo tra i Chatines come quelli che si possono leggere nelle pagine di Sahagún riferite alle usanze.
“Funghi”, “nanacatitos”, pozioni, “Santa” e altri sono considerati da parte delle persone che ho conosciuto (utilizzatori) esseri con cui si condivide la quotidianità. Il “Fungo” forma un tutt’uno con l’entità che vive in esso. Comunica col suo fruitore nel mondo dei “sogni del fungo”. Nanacate e il suo spirito sono la stessa cosa, un essere superiore con apparenza adattata alle realtà in cui si mostra (funghi nel mondo fisico sensoriale tridimensionale e “bambini” nel mondo del “sogno”). I miei interlocutori del Pacifico sono etnomedichesse locali integrate nelle loro società e culture. L’assunzione dei “nanacatitos” la realizzano all'interno di contesti tradizionali organizzati e ben strutturati. Per il fatto di sapere, di aiutare o di curare, i “funghi” sono visti da parte delle mie conoscenti come esseri potenti ed autonomi, le cui decisioni non sempre rappresentano le risposte sperate da coloro che li usano alla ricerca di soluzioni. Queste donne sono molto rispettose di tutto ciò che gira intorno al loro lavoro, specialmente con i pazienti e con gli Esseri che governano le piante ed i “funghi”. Le ho osservate più di una volta intente a parlare a determinate piante, sollecitando aiuto, chiedendo il permesso o recitando litanie prima di realizzare un lavoro di limpia[16] o altro.
Un’etnomedichessa di cui parlo nel mio libro «Cultura tradicional de salud y etnomedicina en Mesoamérica»[17] è una persona anziana e malata, cosa che però non le ha impedito di farmi (durante uno dei nostri incontri) una limpia coll’uovo, da cui me ne andai migliorato (rimando il Lettore al libro, in cui troverà i dettagli della limpia). Riporto qui una parte di ciò che narro per illustrare quanto detto: «Quindi siamo passati in una stanza in penombra dove c’era un tavolo sopra il quale poggiava il necessario per l’“operazione”: bicchieri d’acqua, uova, mescal[18]. [La curandera] mi ordinò di togliermi la camicia e pronunciò una preghiera: “Santissimo sacramento, Padre eterno e Santissima Vergine, fate la vostra benedizione e che venga fuori tutta la malattia”. Usò un’erba del suo orto chiamata “floripondio”[19]. Ne tagliò sette foglie e le asperse col mescal[20]. Poi mi disse che dovevo parlarle e chiederle aiuto: “Fogliolina, che meraviglia [di compito] ti ha dato Iddio; stai per diventare un rimedio. Ti userò per guarire”. Soltanto questo le dico. [La curandera] prese a sfregarmela, strofinandomi la pelle. La guaritrice spiegò che chi mette in pratica una limpia percepisce, avverte il male che sta spazzando via (“io poi sento, sento un dolorino, mi si attacca”). Dopo avermi “ripulito” con la pianta, fece lo stesso tramite un uovo precedentemente irrorato di mescal, pronunciando “Nel nome di Dio e della Santissima Maria, col meraviglioso compito che ti ha dato Iddio, tira fuori tutta la malattia. Padre eterno e Vergine Santissima, guariscilo”. Dopo avermelo passato varie volte attorno al corpo e alla testa, lo ruppe in un bicchiere d’acqua. Poi prese un altro uovo e, dopo preghiere e aspersioni con mescal, me lo ripassò come aveva fatto con quello precedente. Compiuto l’atto, procedette alla “lettura” delle uova. Il primo uovo era rovinato: tuorlo e albume disgregati e disfatti. Il secondo uovo sembrava integro, presentava solo un’area grigiastra sulla superficie del-l’albume. [La curandera] mi spiegò che con il primo uovo era uscita tutta la malattia. Non si trattava di un male fisico giacché il tuorlo rimaneva nel fondo. Si trattava di aire[21], cioè “sguardi” della gente con differenti pensieri (buoni e cattivi). Notava anche stanchezza e troppo lavoro. “Le ha soffiato forte l’‘aria’, vede?” mi disse. Disfece il tuorlo. Il secondo uovo va bene. “Con questo [uovo] Lei s’è già purificato”, aggiunse. Volli sapere come [ella] avesse conseguito le conoscenze per “leggere” le uova nell’acqua. Mi rispose che fu grazie a sua madre e all’esperienza. Per la protezione conto malocchio e aire mi raccomandò di portare con me un sacchettino contenente un aglio, un peperoncino e un rametto di basilico»[22].
L’altra etnomedichessa con cui ho dialogato e ho condiviso idee è considerata lì da lei una donna saggia, cosa che però non le ha evitato di avere occulti nemici a causa dell’invidia, come lei in persona mi ha dichiarato. Un terzo informatore della zona chatina mi ha narrato le sue esperienze con la “Santa” e di come nel “mondo del sogno” abbia potuto vedere il “tona” (animale–anima corrispondente ad una persona) di altri e indicare cure per affinità tona–persona. Tutti concordano che si crea una liberazione dai legami carnali quando si va nel “mondo dei sogni dei bambini”. Per spiegare nello specifico la personale esperienza al Lettore, rimando qui alle pp. 101–102; anticipo solo dicendo che tanto María Sabina quanto le etnomedichesse di cui parlo narrano che i “funghi” quando sono mangiati si trasformano in bambini che, nella dimensione in cui viaggia la coscienza del consumatore, sono soliti prenderlo per mano e accompagnarlo in una sorta di gita didattica e informativa dove l’umano trova risposte alle sue necessità o guide per trovarle.
L’inizio di uscita e di ricerca che intraprende lo sciamano siberiano si ripete nei modelli sciamanici delle culture amerindie, ed è il volo sciamanico descritto da M. Eliade. Alcuni specialisti possono consigliare di prendere la “Santa” o i “nanacates” ai loro clienti–pazienti affinché incontrino la strada della soluzione delle proprie preoccupazioni e problemi o affinché aiutino dalla loro esperienza con questi elementi le proposte degli specialisti del luogo. È il caso delle donne che ho conosciuto. Secondo costoro: «quando il malato è invitato a prendere il fungo o la Santa lo si consiglia e lo si guida alla soluzione da un altro livello».
Se la fisica quantistica ci rivela “comportamenti” incredibili delle particelle subatomiche che formano la materia, e se ciò può impaurirci, sorprenderci, inquietarci fino ad irritarci, le esperienze con elementi induttori di “sogni” (cosiddetti «oneirògeni») rivelano agli specialisti amerindi altri livelli di esistenza in cui costoro percepiscono senza usare i sensi, conoscono Esseri con i quali comunicano senza proferire parola, e vanno a finire in determinati spazi senza avvertire i vincoli abituali propri del mondo materiale. Come antropologi non ci chiediamo se le variazioni di coscienza rispondano a motivi di alterazioni elettrochimiche cerebrali, all’entrata —da come narrano i protagonisti delle esperienze— in mondi in cui dimorano Esseri potenti diversi da noi, o ad entrambe le spiegazioni insieme. Ci interessa cosa abbiano vissuto gli utenti, ci interessano le loro narrazioni esperienziali e le realtà costruite (mondi costruiti) che costoro ci descrivono. Questi vissuti, qualora siano fatti–stati di esperienza comunicabili, sono oggetto di interesse antropologico poiché palesano tratti caratteristici di rivelazione di culture diverse, e ciò ci orienta nella loro comprensione. Ci rivelano anche la capacità umana di adattarsi ed interagire in ogni dove, in ogni società e in ogni circostanza. Ci informano dell’importanza della cultura nel divenire dei popoli: come sono i costumi, le tradizioni etc., le quali danno forma alle identità locali o nazionali. Allo scopo di capire le credenze e le usanze religiose di ogni popolo ci sembra infatti necessario che si sappia qualcosa della loro concezione del mondo e della vita e in genere del loro contesto culturale.
Nel caso della chiesa ayahuascquera (caratterizzata dal consumo rituale della bevanda ayahuasca, costituita dal decotto della liana di Banisteriopsis caapi insieme ad altre piante; cfr. qui, pp. 85–89), i fedeli ingeriscono la pianta nell’àmbito di un rituale perfettamente organizzato e diretto. Esiste uno schema da seguire. Il cervello degli assistenti in un dato momento può formare immagini distorte della realtà sensoriale per la mediazione elettrochimica causata dai princìpi attivi della pianta. In questi momenti è la cultura quella che prende le redini della momentanea trasformazione delle persone. L’organizzazione dell’atto e la conduzione culturale impediscono il per così dire “caos conseguente all’uso”, conducendo a buon porto gli assistenti. Lo stesso càpita con gli etnomedici dello Stato di Oaxaca che ho conosciuto. Il pericolo è dietro l’angolo per chi non abbia un buon piano di utilizzo o una strada da seguire. Mi hanno offerto i “funghi” ma non li ho mangiati, poiché non possedevo tali guide. Non avevo nemmeno una motivazione. E, inoltre, per rispetto e perché stavo conducendo un lavoro. In questo caso, rendendomi partecipe tramite degustazione, ho osservato ulteriori impieghi di altre piante e bevande come il mescal senza però arrivare a situazioni di alterazione della coscienza benché, sì, piuttosto ad un po’ d’ebbrezza. Con le mie etnomedichesse sono stato partecipe conversando, osservando i loro lavori, lasciandomi servire e curare e interagendo con loro conducendovi vita in comune.
L’uso locale dei “funghi” mantiene una relazione stretta con le ragioni che hanno giustificato la loro scelta come mezzo di lavoro e di ausilio. Ho visto una logica schiacciante tra il prima, il durante e il dopo. In qualità di osservatori esterni diremmo che apprezziamo fatti relazionati con queste persone e i consumi di “mezzi speciali” in tre momenti: - quello precedente al varco della “soglia” (preparazione, finalità–obiettivi, disposizione), - quello dell’esperienza (dello specialista si fa vedere soltanto il corpo mentre la sua mente “di–vaga” in “altri luoghi”), - e quello del ritorno.
I “bambini dei funghi” indirizzano, danno, rispondono, consigliano etc., e il guaritore o la guaritrice operano di conseguenza. Gli esperti tengono in debita considerazione la ragione del loro “volo”, della loro visita al mondo dei “bambini”; e la maggior parte delle volte le loro proposte, aiuti, apporti e attuazioni ai pazienti o a coloro con cui siamo relazionati, sono corrette e coerenti; almeno questo è ciò che ho costatato nelle cerimonie di sanazione in cui sono stato presente, incluse quelle praticate su di me.
In quelle terre a volte ci si imbatte in visitatori occidentali. Alcuni vanno alla ricerca di esperienze con i “funghi”. Alla gente del posto danno spesso fastidio l’audacia e la mancanza di rispetto con cui tali stranieri si orientano all’uso dei “funghi”. Alcuni li vogliono per divertirsi, altri per scoprire sensazioni speciali o vivere esperienze nuove. Non voglio giudicare ciò. Soltanto dico che coloro che ho incontrato non sanno di cosa si tratta. Svincolano il “fungo” dal suo contesto tradizionale, e non si prefiggono le finalità che hanno i fruitori autoctoni. Una delle donne che conosco ha preso i “funghetti” per molti anni, dalla sua adolescenza. Erano tempi brutti, secondo lei, e i funghi la aiutarono a sopravvivere mitigando la sua fame. E R. Herren (1993) rimarca l’uso del fungo per alleviare lo sforzo, la fame e la sete. L’etnomedichessa cui mi riferisco ha aiutato persone con problemi vari, ha orientato sulle strade da seguire e ha imparato molto dai “bambini del sogno”. Nel mio libro succitato[23] si espongono in dettaglio gli incontri con queste persone ed altri etnomedici dello Stato di Oaxaca; e raccomando la lettura del libro del coautore Francesco Di Ludovico «Il Giardino dei due mondi – Un viaggio nell’esperienza erboristica della Mesoamerica e dell’Italia»[24], in cui il Lettore incontrerà chiavi e guide per capire aspetti propriamente etnofarmacologici non sempre ben interpretati da parte di chi si avvicina alla conoscenza di questi fenomeni.

[1]
Cfr. qui, nella scheda monografica alle pp. [...].
[2]
Cfr. M. De La Garza, Sueño y alucinación en el mundo Náhuatl y Maya. Universidad Nacional Autónoma de México, UNAM. 1990: pp. 15–18.
[3]
Per intendere quelli che neuro–psicologicamente sono definibili immagini ipnagogiche, allucinosi, fantasie, sogni lucidi, oniroidismi, visioni.
[4]
Di cui raccomandiamo la biografia: Á. Estrada, Vida de María Sabina, la sabia de los hongos. Siglo XXI Editores. 2003.
[5]
Cfr. M. De La Garza, op. cit.
[6]
Cfr. R. Herren, La otra cara de la conquista. Planeta, Barcellona, Spagna. 1993.
[7]
Detto Ololiuhqui in spagnolo messicano, è botanicamente Turbina corymbosa; cfr. qui, pp. 111–113.
[8]
Il termine «gotta» (gota in castigliano) nell’accezione spagnola medievale aveva il significato di “dolore reumatico” come pure di “edema”.
[9]
Sahagún, 1994. «Párrafo primero, de ciertas hierbas que emborrachan. Hay una yerba que se llama coatlxoxouhquij, y crían una semilla que se llama olo-liuhquj, o coatl xoxouhqui. Esta semilla emborracha y enloquece. Danla por bebedi-zos para hacer daño a los que quieren mal y los que la comen parescenles que veen visiones y cosas espantables. Danla a comer con la comida y a beber con la bebida los hechiceros y los que aborrecen a algunos para hacerles mal. Esta yerba es medicinal y su semilla para la gota, muliéndola y poniéndola en el lugar donde está la gota».
[10]
R. Herren, op. cit.: p. 157.
[11]
Botanicamente è Lophophora williamsii; cfr. qui, pp. 93–97.
[12]
Sahagún, 1994: «Ay otra yerba que se llama peyotl; es blanca, hazese hacia la parte del norte; los que la comen o beben veen visiones espantosas o derrisas, dura este emborrachamiento dos o tres dias, y despues se quita, es comun manar de los chichimecas que los mantiene y da animo para pelear y no tener miedo, ni sed, ni hambre y dizen que los guarda de todo peligro».
[13]
Sahagún, 1994: «Ay unos honguillos en esta tierra que se llaman teonanacatl: crianse debaxo del heno en los campos o paramos, son redondos y tienen el pie altillo y delgado y redondo, comidos son de mal sabor, dañan la garganta y emborrachan, son medicinales contra las calenturas y la gota, anse de comer dos o tres no mas, los que los comen veen visiones y sienten locos del cora-çon y veen visiones a las vezes espantables y a las vezes derrisa, a los que comen mucho provocan aluxuria y aunque sean pocos. Y a los moços locos y traviesos dizenles que an comido nanacatl».
[14]
Verosimilmente corrisponde alla pianta definita col nome botanico di Quararibea funebris, e detta Flor de cacao in spagnolo messicano.
[15]
J. De Cárdenas, 1591 Rist. 2003: 4: «Quentase con verdad del Peyote del poyomate, y del Hololifque, que si se toman por la boca, sacan tan deveras de juyzio al miserable que los toma, que entre otras terribles, y espantosas fantasmas se les representa el demonio, y aun les da noticia (según dizen) de cosas por venir, y debe ser todo traças, y embustes de sathanas, cuya propiedad es engañar con permission divina, al miserable que en semejantes occasiones le busca».
[16]
Una limpia costituisce un rituale religioso in cui da parte di un guaritore (curandero o sciamano) si sfrega il paziente con varie erbe (molte di ispanica provenienza: rosmarino, basilico e ruta) mentre si prega con lui; può essere condotta anche sfiorando il paziente con un uovo integro e fresco che alla fine viene rotto dal guaritore: se presenta un tuorlo ingrigito, la limpia ha sortito il positivo effetto di togliere negatività al paziente. È considerato un rito purificante per l’anima.
[17]
Trafford publishing, Alberta, Canada. 2008.
[18]
Liquore ottenuto dalla distillazione del cuore di alcune specie di Agave (Agave angustifolia, salmiana, azul tequilana etc.) in maniera simile alla tequila.
[19]
Botanicamente è Datura/Brugmansia sp.; cfr. qui, pp. 137–140.
[20]
I guaritori (curanderos) normalmente prendono in bocca una sorsata di mescal e poi la soffiano sulla persona che riceve la limpia o sugli oggetti o mezzi di cui costoro si servono.
[21]
Nel contesto culturale mesoamericano della malattia, il termine aire assume un’accezione diversa da quella propria e semplice di “aria”; designa, infatti, una sorta di soffio energetico, un alito magico, ordinariamente a connotazione negativa. Pertanto il mal aire è come una “ventata maligna”, che ha il potere di insinuarsi irreversibilmente in una qualsiasi parte dell’organismo della persona contro cui si “soffia”. Motivi che secondo la nosologia popolare amerindia cagionano il mal aire sono, il malocchio oppure l’esposizione ad agenti inquinanti o la permanenza in luoghi malsani: discariche, posti impuri, acquitrini, zone paludose e con acque stagnanti (da cui la probabile origine del cinquecentesco etimo del termine “malaria”).
[22]
A. J. Aparicio Mena, La limpia en las etnomedicinas mesoamericanas; in: Gazeta de Antropología 2009; vol. 25(1), art. n.21: pp. 226–227.
[23]
A. J. Aparicio Mena, Cultura tradicional de salud y etnomedicina en Me-soamérica. Trafford publishing, Alberta, Canada. 2008.
[24]
Aracne Editrice, Roma, Italia. 2009 Rist. 2011.