Los seres humanos creamos culturas. Observamos, pensamos, imaginamos, obramos, comunicamos nuestras experiencias... Somos variados. Construimos nuestra "realidad". Fabricamos opiniones y maneras distintas de narrar nuestras vivencias. Este espacio expone estudios y trabajos del campo de la antropología del bienestar y la salud así como de la antropología de la naturaleza, sus componentes y sus leyes mostrando diversas concepciones y acciones que en esos terrenos se pueden dar y llevar a cabo en las culturas y sociedades del mundo.

Foto: "Águila peleando con serpiente". Tatuaje clásico del artista: Alvar Mena (La barbería tatuajes. Salamanca)

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SEGUNDA ETAPA

martes, 22 de octubre de 2013

LA LIMPIA NELLE ETNOMEDICINE MESOAMERICANE Un avvicinamento antropologico ad uno dei procedimenti di riequilibrio delle culture mesoamericane più antichi

Alfonso J. Aparicio Mena
Francesco Di Ludovico

(Versión italiana del libro: The Limpia in the Mesoamerican ethnomedicines. Autores: Aparicio, A. & Di Ludovico F. Bubok Publishing. Se puede adquirir en: http://www.bubok.es/libros/223090/THE-LIMPIA-IN-THE-MESOAMERICAN-ETHNOMEDICINES)
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Traductor a lengua italiana: Francesco Di Ludovico.

LA LIMPIA NELLE ETNOMEDICINE MESOAMERICANE
Un avvicinamento antropologico ad uno dei procedimenti di riequilibrio delle culture mesoamericane più antichi
  
DESCRIZIONE OPERA

La limpia è un procedimento fisico–simbolico di riequilibrio, utilizzato nelle etnomedicine mesoamericane e amerindiane. Proviene da epoche antiche e mette la persona in relazione con se stessa e con i contesti in cui è inserita (biologico, comunitario e religioso–spirituale). La conduzione di una limpia ha l’intento di ripristinare l’armonia della persona con i suddetti àmbiti, rimuovendole quegli elementi (fisici, sociali e mistici) che le causano il suo malessere o glielo influenzano. Secondo il dizionario, «pulire» («limpiar», in castigliano) è «togliere la sporcizia o i difetti da qualcosa». Quando ciò che si toglie è visibile, il risultato del pulire è un fatto oggettivo; mentre quando l’alterazione, il difetto, il blocco presenti nella persona sono “energetici”, la limpia (la “pulitura”) diventa un atto di fede, un rituale fisico ad un passo dal sacro. Dopo un divulgativo excursus sulla visione antica ed odierna, “occidentale” ed “orientale” del concetto di malattia, benessere e salute, sull’approccio terapeutico e sui costituenti dell’essere umano tra i quali quel quid in più (“spirituale–energetico”), si delineano nel presente testo le peculiarità delle medicine tradizionali della Mesoamerica, dando rilievo alla tecnica della limpia. Gli Autori ne riferiscono, infine, le proprie esperienze.
Introduzione
Il modo di intendere il benessere[1] in ogni cultura o società si correla con i contenuti delle loro tradizioni. Le etnie che in Mesoamerica[2] hanno mantenuto un folclore originario o meticcio continuano a sviluppare le proprie forme di prevenzione e di cura dei malanni.
Nelle società del passato, così come in quelle presenti, gli esseri umani mettono (ed hanno messo) in pratica sistemi e condotte per assecondare le necessità di salute[3]. Il cosiddetto «sciamanesimo» è stato (e lo è ancora) un insieme di credenze e cosmovisioni basato sull’attività guaritrice magico–religiosa di un individuo saggio, lo «sciamano»[4]. Jacques Brosse sintetizza che una delle finalità principali di questo particolare guaritore nella società era la cura dei malanni[5]. Secondo la visione nosologica di molti popoli autoctoni, la malattia quasi mai possiede una causa primariamente organica: essa la si ritiene, infatti, provocata dall’inserimento di un “elemento nocivo” o dalla «perdita dell’anima»[6]. Pertanto lo sciamano avrà il duplice compito di estrarre il primo e di recuperare la seconda. Mircea Eliade ribadisce che una delle missioni dello sciamano (parlando degli sciamani delle varie culture del mondo) era di dare coesione al gruppo, mettendolo al sicuro in ogni senso[7]. Lo studio interpretativo dei ricercatori Jean Clottes e David Lewis–Williams sui disegni, pitture e sculture delle caverne del Paleolitico, ipotizza l’esistenza di sciamani già nella preistoria[8].
Da ciò che si conosce attraverso le fonti di documentazione (principalmente russe) studiate da Mircea Eliade sullo sciamanesimo asiatico e nord–asiatico, questo sistema, oltre che terapeutico, sarebbe un modo organizzativo dei gruppi e delle comunità in periodi in cui le minacce esterne (naturali, “soprannaturali” e umane) mettevano in pericolo non soltanto l’equilibrio e il benessere degli individui ma anche la stabilità e l’integrità dei loro gruppi. Per Antony Tao, dallo sciamanesimo cinese nacque una specializzazione ulteriore dedicata alla cura, lo sciamanesimo curativo, a partire dal momento in cui le società divennero stanziali (inizio del Neolitico, circa 10mila anni fa). Da questo sciamanesimo sarebbe poi sorta la Medicina Tradizionale Cinese (MTC)[9].
Le analogie con gli sciamanesimi praticati in altri Paesi, benché lontani, sono così evidenti che alcuni Autori parlano di fenomeno peculiare della struttura mentale umana (perciò universale), o, piuttosto, dichiarano l’esistenza di un medesimo luogo di origine. Da un punto di vista strettamente antropologico, anziché difendere le universalità e i paradigmi, difendiamo le particolarità e tutte quelle maniere che, provenienti dalle culture, esistono per spiegare il mondo e le cose. Teniamo conto di quelli universali come informazione. Consideriamo l’idea dello stesso luogo di origine degli sciamanesimi se ci situiamo circa 180mila–200mila anni fa. Gli esseri umani “nuovi” (cioè quelli da cui tutti noi proveniamo) già disposero forse di una cultura originaria (nella quale includeremmo la struttura dello sciamanesimo in tutta la sua complessità). Tale struttura culturale avrebbe trasferito la base organizzativa sciamanica in tutto il mondo.
Mircea Eliade conclude che lo sciamanesimo è un elemento basilare in tutte le tradizioni spirituali della Terra. Nel libro «Cultura tradicional de salud y etnomedicina en Mesoamérica»[10] spiego e analizzo abbondantemente questo antico fenomeno.
Fino all’arrivo degli europei in America, i gruppi amerindiani disposero di modi di curare adattati alla propria forma di pensare e alle proprie visioni del mondo. I cronisti delle Indie compilarono resoconti sulle caratteristiche di tutto quel mondo in cui si imbattevano. E, benché influenzati dalle proprie origini, la loro forma di pensare europeo–cristiana e i condizionamenti che il potere religioso e politico imponeva loro, costoro descrissero a parole tutta la maestosità di quelle culture, come fece Fra Bernardino De Sahagún[11]. Nelle etnografie dell’epo-ca si parla di guaritori, di approcci medici e di elementi per curare, cioè di tutta una organizzazione dell’arte terapeutica locale.
Nei libri dei cronisti che parlano di etnomedicina si dà principalmente risalto alle caratteristiche e agli elementi relativi a mezzi curativi naturali (la maggior parte di origine vegetale, ma anche minerale e animale). Quando Sahagún tratta di aspetti della medicina azteca, parla di “medici buoni” (veri) e di “medici cattivi” (falsi); non soltanto riferendosi alla responsabilità e ai princìpi, ma anche ai metodi di lavoro e ai mezzi utilizzati. Egli suole associare il non–naturale a pratiche di fattucchieria o a simboli culturali (religiosi) relazionati al calendario, alla mantica, alle tradizioni locali etc.
Anna Reid scrive dello sciamanesimo siberiano segnalando il suo lento recupero, come altri piccoli pezzi della cultura dei popoli nord–asiatici dopo la fine dell’Impero sovietico. Sciamani ed etnomedici siberiani soffrirono per l’avanzata verso est della Russia zarista; e risoffrirono quando il sistema sovietico impose agli autoctoni siberiani un ordine basato su una cultura materialistica su base produttiva[12].
Sistemi antichi come lo sciamanesimo, che annoveravano non solo l’organizzazione della salute nelle comunità ma anche altre organizzazioni più o meno “politiche” o “economiche” ma vincolate al-l’equilibrio del mezzo e alle tradizioni, non combaciano con sistemi che sorsero molto dopo come il capitalismo o il comunismo. Capitalismo e comunismo hanno un pilastro comune nelle loro rispettive costruzioni comunicative: la scienza (intesa, da un punto di vista antropologico, come obiettivo culturale della cosiddetta “società occidentale”, e non come l’“obiettivo logico” cui tutta la civilizzazione sarebbe presto o tardi arrivata benché priva dell’influenza di quelle arrivate precedentemente). Per tale motivo, gli sciamanesimi e altri sistemi organizzativo–culturali simili sono in serio pericolo di estinzione nel mondo globale di taglio culturale e logistico occidentale convenzionale. Sono stili di vita che non combaciano; e se si mantengono vivi è solo grazie alle politiche di protezione e alle misure preventive che si legiferano nei vari Paesi di appartenenza. In altri casi costituiscono minoranze così “insignificanti” e isolate, che addirittura possono essere colti come obiettivi esotici (ed economici) del turismo o di un certo tipo di turismo.
L’Europa occidentale, come è capitato in altre parti del mondo, ha seguito il proprio cammino di evoluzione e progresso. Ragioni socio–storiche e culturali hanno reso possibile l’avvento della scienza. Antony Tao dice che i greci intendevano l’universo come un tutto regolato da leggi che il pensiero era capace di decifrare e conoscere. Il chimico Albert Hofmann ci ricorda che Nietzsche sosteneva che ciò che caratterizzava la mente greca sin dalle sue origini era la coscienza scissa della realtà. La Grecia fu la culla di una visione del mondo in cui l’Io si sentiva separato dall’ambiente esterno. Qui, ben prima che in altre aree culturali, venne a formarsi il distacco tra individuo e mondo. Questo dualismo, che il medico e scrittore tedesco Gottfried Benn ha descritto come «destino nevrotico europeo», ha caratterizzato poi in maniera determinante la storia intellettuale europea e a tutt’oggi svolge un ruolo decisivo. Un Io che vede il mondo come esterno a sé, come oggetto, e questa coscienza che fa della realtà un dato esterno furono il presupposto della nascita delle scienze naturali occidentali. Già nelle prime opere del pensiero scientifico, nelle teorie cosmologiche dei filosofi presocratici greci, era all’opera questa visione oggettivante della realtà. La posizione dell’uomo difronte alla natura, che rese possibile un forte dominio sulla stessa, fu poi formulata chiaramente e fondata filosoficamente per la prima volta da Cartesio nel XVII secolo. Da allora in Europa si è diffuso un tipo di indagine sulla natura tendente all’oggettivazione e alla misurazione, che ha permesso di formulare le leggi fisiche e chimiche della natura e delle sue forze. Da ciò è conseguito l’attuale sviluppo mondiale della tecnologia e dell’industrializ-zazione in quasi tutti gli aspetti dell’esistenza, offrendo a una parte del-l’umanità insperati comodità e benessere. Tuttavia si dava inizio alla distruzione dell’ambiente. Ancora più gravi di quelli materiali sono stati però i danni spirituali dello sviluppo della visione materialistica del mondo. L’individuo ha perduto il nesso con il fondamento spirituale e divino di tutti gli esseri. Non protetto, insicuro e isolato, l’uomo ha cominciato ad affrontare da solo un habitat esanime, materiale, caotico e minaccioso. Il germe di questa visione dualistica della realtà era già stato gettato nell’antichità greca[13].
Dal dionisiaco àmbito estatico proviene la saggezza, intesa come la conoscenza dell’arcano e dell’insondabile. Il saggio (“colui che sa”) non era, infatti, lo scrittore erudito o il colto oratore; era piuttosto il mago/sciamano, capace di volgere lo sguardo, illuminandola, alla oscurità del mistero e delle “essenze” sottili. Grazie alla propria resa totale alla natura, egli diveniva capace di scrutare l’ineffabile per poi riportarlo sulla Terra e riuscire a narrarlo in termini umani. Dalla saggezza così concepita si originò la filosofia: dalle “idee” e dalla poetica dell’incertezza platoniche all’analisi critica e alla razionalità aristoteliche. Poi, tale “amore per la sapienza”, una volta diventato pura elucubrazione dottrinale, si fuse nell’iniziale pensiero religioso cristiano, senza che tuttavia questo rimanesse scevro da influenze ermetiche o gnostiche[14].
A questa base culturale si unì l’apporto del cristianesimo che, come il giudaismo, voleva un Dio trascendente, separato dalla natura. La Chiesa prese, infatti, la tradizione biblica di una divinità creatrice demiurgica e maschile, unica e distaccata dalle proprie creature, e perpetuò il concetto dualistico e meccanicistico nato in seno alla filosofia ellenica; ripropose il modello dicotomico e manicheo di Bene/Male e di Uomo/Divinità così come mente/materia, Uomo/mente e Divinità/materia. Dato che uno dei princìpi fondamentali del dogmatico e monoteistico cristianesimo è quello dell’imperscrutabilità della natura divina, esaltando la sua trascendenza e negando la sua immanenza, è ovvio che questa religione sia stata sin dall’inizio ostile ad ogni condizione estatica non mediata da figure accademicamente religiose (sacerdoti). Il divino fu dislocato in cielo e il panteismo esecrato, la natura proibita e la presunta pratica magica stigmatizzata. Nelle culture europee, in un secondo tempo, la natura rimase libera da vincoli e dipendenze spirituali, disposta ad essere studiata da parte di un pensiero non mediato dalla Divinità; divenne oggetto di studio e di meticolosa vivisezione. Nel Medioevo si ritornarono ad usare, sebbene lentamente e con riserbo, mezzi e tecniche[15] che liberassero le forze occulte delle Potenze Superiori e che riportassero sulla Terra la loro voce sublime[16]. Già nel Rinascimento si espresse e si saggiò tale tendenza. Successivamente giunsero l’Illuminismo e poi la rivoluzione industriale. L’Europa divenne potente. I gruppi dirigenti e i possessori del denaro allungarono l’occhio ad altri luoghi del pianeta, come a suo tempo fece la Corona di Castiglia. Trovarono persone diverse, che non parlavano come loro, che non pensavano come loro, che non vedevano le cose come loro, che non intendevano le malattie come loro e che non curavano come loro. Così come fecero gli spagnoli in America, anche il resto dei Paesi europei impose alcune relazioni di potere alle nuove società.
La scienza, come parte della cultura europea, è stata presa come riferimento di progresso (evoluzionismo). Una grande parte degli scienziati positivi ha considerato una sola linea di avanzamento umano sulla Terra: la propria. Si sono viste le persone di altri popoli come esseri in fase di sviluppo prescientifico, tacciati come “selvaggi” —anche da parte di alcuni scienziati. Come in Europa, specificamente in Grecia, agli inizi del cristianesimo, furono demoliti i templi dei pagani Misteri (fra i più noti, quelli di Delfi ed Eleusi). Alcuni secoli più tardi, nell’America appena scoperta gli stessi solleciti cristiani distrussero i riti segreti degli aborigeni affinché terminassero quei culti che davano accesso diretto all’anima e al sacro. Nel momento attuale si è creata tra gli occidentali una coscienza di superiorità basata in tutte queste idee.
Roberto Fedeli, in un proprio excursus sull’esperienza estatica mediata da piante psichedeliche espone egregiamente che l’epistemo-logia insegna e la storia della scienza conferma che ogni volta che l’uomo dirige il proprio sguardo in torno a sé, egli riesce a vedere solo parti distaccate di un tutto indefinito; quelle che i filosofi chiamavano “essenze” possiamo conoscerle soltanto grazie ad una resa totale alla vita e alla natura. Il mito racconta che quando Dio cacciò gli esseri umani fuori dal Paradiso, disse tuttavia loro che soggiogassero il mondo: e ciò essi potevano farlo solo tramite la conoscenza dei meccanismi di funzionamento, ossia le parti, dicendo addio alle essenze. Successivamente l’uomo apprese che alcune parti dovevano essere connesse alle altre affinché si potesse arrivare a qualcosa di benché non vero però sensato. E così, epoca dopo epoca, il sensato ha sempre cambiato le proprie forme e caratteristiche. Thomas Kuhn ha parlato di «paradigma», inteso come un sistema di valori condiviso che contribuisca a dare senso e forma ad un insieme di dati ottenuti dall’os-servazione empirica. Spesso càpita che si stabilisca una totale incomunicabilità tra i portavoce delle contrastanti ipotesi, e che la comunità scientifica si ritrovi priva di alcuni suoi elementi. I composti psicodislettici delle piante allucinogene, per esempio, causarono penosa afflizione al metodo austero della scienza così esperto in dissezione ma ignaro delle “essenze”. Si trattò del secondo grande affronto del secolo XX dopo le “esoteriche” rivelazioni delle teorie quantistiche che avevano cominciato a guardare al mistero e all’indefinibile[17].
La medicina si è resa scientifica e pertanto è divenuta il modello da seguire. Tuttavia, antropologi come Malinowski, Franz Boas o Clifford Geertz hanno dato importanza all’apporto originario dei membri delle diverse culture. Per conoscere qualcuno non solo bisogna osservalo, ma bisogna anche ascoltarlo. Per conoscere un’altra cultura, oltre ad osservarla e ad analizzarla dal nostro punto di vista (che le è lontano) è necessario che ce la spieghino i suoi protagonisti.
Medicine tradizionali amerindiane ed asiatiche ci “dicono” che per capire ciò che succede ad un malato c’è bisogno di permettergli di parlare del suo malessere e di come lo ha vissuto. Qualcosa del genere affermava Edward Bach[18]. Di fatto, la raccolta anamnestica che uno sciamano o un curandero fa al paziente dà molta importanza al-l’aspetto psichico dei suoi malanni benché riferiti come puramente fisici; tuttavia a volte questo dialogo diventa difficile: i sintomi sono descritti vagamente o simbolicamente, sono rari, stranamente acuti o incomprensibilmente cronici. In questi casi lo sciamano sospetterà un’origine o una concausa “magica” della malattia. Sarà dunque frequente che egli utilizzi l’ingestione di derivati di piante enteogene (“allucinogene”) affinché, sotto una condizione di coscienza alterata, le visioni “divine” (contemplazioni estatiche, interpretate come tali) gli suggeriscano la causa della malattia o affinché nelle regioni “oltremondane” in cui nel frattempo vive il suo spirito egli possa recuperare l’“anima persa” del paziente. Questo tratto caratteristico deve essere interpretato secondo la cosmovisione amerindiana e non secondo quella occidentale. Possiamo ribadire l’importanza di tale esperienza mistica dell’unità (la unio mystica, che significa conoscere la Divinità e capire che è monisticamente Una–e–Tutto), giacché potrebbe essere finalizzata alla cura di un’umanità spiritualmente malata di una visione parziale e razionale–materialistica del mondo. Dunque, il superamento della cosmovisione dualistica, insieme alla “morte dell’Io” (cioè conoscere intimamente se stessi, il proprio spirito, e capire il fatto di possedere una natura sacra), potrebbe costituire la base della cura e del rinnovamento spirituale della cultura occidentale[19].
Ogni etnomedicina occupa un particolare posto culturale. Due linee di progresso culturale non convergeranno mai in tutto, naturalmente, a meno che vengano manipolate allo scopo. La scienza nacque in Europa come un fatto proprio del cammino evolutivo europeo. Però altri popoli (amerindi, asiatici, africani) non ebbero cultura ellenica né cristianesimo né giudaismo né Rinascimento né Illuminismo francese. E ciò non volle, né vuol, dire che valessero (o valgano) meno degli europei, o degli occidentali. Si tratta di una chiara questione politica.
I Polo narrarono meraviglie di progresso in Asia quando l’Europa ancora viveva in pieno Medioevo[20]. I cronisti delle Indie e altri uomini intelligenti e sensibili dell’epoca rimasero stupefatti quando contemplarono la grandezza delle culture dei popoli conquistati in America. Fu il colonialismo (parlando del colonialismo occidentale in generale, non soltanto iberico) a rompere lo sviluppo equilibrato dei popoli non occidentali. Fu tale colonialismo a modificare la traiettoria delle linee di evoluzione socio–culturale non occidentali. Fu lo stesso colonialismo a creare le differenze che generarono i “complessi di inferiorità” su grande scala (fra i popoli sottomessi) potenziando al contempo gli ego culturali dei colonizzatori. Il cosiddetto «Terzo Mondo» è un’espressione coniata dalla cultura occidentale, dominante. È un’espressione di stratificazione. Il Primo Mondo è il mondo ricco, e quindi superiore poiché ha il potere e i soldi. Il secondo Mondo è un ibrido a sviluppo intermedio, “mal seduto tra due sedie”. Il Terzo Mondo è quello dei “miserabili” (termine dalle molte letture, a seconda di come ci si avvicina alla sua comprensione). La povertà, le malattie, la fame e tutti i difetti di cui soffrono gli uomini, le donne e i bambini di quello che è chiamato “Terzo Mondo” sorsero dopo che i gruppi umani che in esso si sviluppavano dall’antichità, si videro invalidi e sottomessi da parte di uomini venuti da lontano. Queste condizioni non si devono, dunque, alle sue peculiarità socio–culturali, storiche e organizzative, che sono diverse da quelle che portarono alla rivoluzione scientifica europea[21].
Nel momento attuale, in generale, si continua ad “aiutare” il Terzo Mondo; è un “assistenzialismo” prestato tramite le organizzazioni non governative (ONG), organizzazioni religiose e statali. Un aiuto che, secondo molti membri delle etnie, è improduttivo, sterile e incapace di regolarsi alla organizzazione autoctona di gruppi e persone. I membri di quelle società desiderano che:
1) li si rispetti e li si tenga in considerazione;
2) se si offre loro aiuto, questo deve essere sostenuto, avvalorato e gestito da parte delle loro organizzazioni locali;
3) gli specialisti sanitari occidentali e statali si uniscano agli specialisti locali ed etnomedici. A volte dicono: «Arrivano i bianchi con le loro idee, le loro medicine e il loro cibo per noi», e questo rimarca ancora di più la differenza tra gli uni e gli altri.
Mapuches sudamericani, Maya del Chiapas o Zapotechi, Mixe e Chatinos dello Stato messicano di Oaxaca desiderano poter continuare il proprio sviluppo da parte delle proprie organizzazioni, condividendo con il resto dei gruppi e con le proprie nazioni un progetto di futuro in una società pluralistica, multiculturale ed in pace. Per molti è simile la imposizione della forza, della legge straniera, dell’educazio-ne nazionale, dei centri di salute statali e delle loro medicine. Su nessuno dei gruppi locali hanno potuto contare per farlo. Non c’è stato un tavolo di accordi. Costoro ritengono che tutto ciò che si faccia deve essere il risultato di compromessi e di dialogo.
Quando gli amerindi soffrirono per la destrutturazione delle proprie società a partire dal XV secolo; quando nuove istituzioni imposero un ordine importato dall’Europa, cominciò il cammino di decadenza dei gruppi originari, allontanati dai porti sicuri delle proprie organizzazioni tradizionali. Passarono gli anni, passarono i secoli, in America. L’unione amerindio–ispanica creò una nuova società, mista, meticcia, confluenza di due distinte fonti umane e culturali. Questa società si sviluppò nei nuclei urbani, forgiando un tipo di etnomedicina eclettica, ibrida (come la possiamo trovare oggi al mercato di Sonora a Città del Messico). Tale cultura di salute è già una tradizione ulteriore in America. D’altra parte, i gruppi indigeni, alterati, seguirono il proprio sviluppo relativamente originario nelle aree lontane dalla città, mantenendo con maggior o minor grado di acculturazione i propri sistemi curativi. La conquista dell’America non solo implicò la fine dello Stato azteco, a livello politico, sociale, organizzativo, ideologico; implicò anche la fine della produzione culturale e il registro del sapere direttamente legati alla vita quotidiana e alla tradizione nell’àmbito naturale della vita e della quotidianità degli Aztechi. A partire da quel momento verrà affidato al ricordo o se ne compilerà la memoria; si registreranno nuove esperienze; il tutto dentro un contesto nuovo costituito da dominati e dominatori. Questa situazione per gli indigeni inciderà nelle loro esperienze di vita, marcate dalla necessità di accomodazione alle nuove circostanze, dall’assimilazione delle stesse e dal timore permanente nei confronti dei “signori bianchi”. Nelle zone appartate dei nuclei urbani, nelle aree di difficile accesso, nelle campagne, le tradizioni antiche resistettero in modo parziale. Favorite, involontariamente, dal proprio sistema religioso cattolico, che, per com’era organizzato e strutturato, contribuì indirettamente alla loro salvezza, esse giunsero per la maggior parte fino ai nostri giorni tramite la parola trasmessa di generazione in generazione. L’invasione castigliano–spagnola ebbe conseguenze molto negative per gli amerindi. Tuttavia, l’arrivo degli europei nelle vergini terre americane, oltre a nefaste conseguenze apportò il proprio contributo culturale e materiale a volte positivo. Apprezzando, infatti, molti dei poteri terapeutici di minerali e di piante endemici, i conquistatori più concilianti incoraggiarono l’uso degli stessi. Pertanto, il processo di acculturazione se da una parte stigmatizzò l’impiego di mezzi considerati diabolici da alcuni ispanici puritani, dall’altra permise la permanenza dell’uso di molti altri che oggigiorno in Messico godono delle stesse indicazioni che avevano nei tempi antichi, ed esportò molti vegetali officinali iberici (come salvia, ruta, camomilla, rosmarino).
Le arti curative nel Messico attuale sono, di fatto, costituite dalla somma di concetti medici di Vecchio e Nuovo Mondo. Esempio antropologicamente affascinante ne è il vasto armamentario, chiamato «parafernalia», che il guaritore (curandero) si porta con sé quando visita un paziente e che egli, in preghiera, collocherà con ordine su una vivace tovaglia: un insieme di erbe di campo, candele ed incensi, cristalli, conchiglie, liquori di agave, immagini sacre di pagani virtuosi ed effigi cristiane, profumi, olii ed acqua piovana, ventagli di palma, libretti di cura ufficiali e altri di quelli degli avi, farfalle di carta e nastri colorati[22].
Il mondo in cui oggi viviamo presenta un altro tipo di “colonialismo” (se lo si vuol chiamare così) caratterizzato dalla sostituzione, sovrapposizione e spinta delle idee. La cultura occidentale (le sue icone ideali e commerciali, la pubblicità, la musica etc.), attraverso il fenomeno della globalizzazione e dell’internazionalizzazione, si mostra potente e avanza dominante, imponendosi in ogni società, sovrapponendosi alle culture locali, nel peggiore dei casi sostituendole o, nel migliore dei casi, fondendosi con esse. Le medicine tradizionali sono medicine sorte in società e culture con tratti propri e differenziati, usate con successo dai membri di tali società.
Rappresentanti dell’antropologia medica come Robert Hahn, Arthur Kleinmann, Peter Brown e Byron Good sono dell’idea che salute e malattia non si possono separare dai loro concetti socioculturali; e che i sistemi terapeutici, etnomedicine e modi di curare sono il risultato dell’adeguamento alla attenzione a tali contesti. Quando parliamo di concetti di salute o di malattia nella società mesoamericana, ci riferiamo a rappresentazioni di questi fatti nella mente degli individui e nella loro collettività. Non possiamo cadere nell’errore di applicare il nostro modo di pensare e la nostra organizzazione di pensiero a persone che non solo sono a noi (occidentali) distanti a livello culturale [23] ma anche storico.
Riferendosi a quella azteca, Gonzalo Aguirre Beltrán scrive che tale medicina, essenzialmente mistica, è stata qualificata come superstiziosa da parte dei religiosi della Colonia e come prelogica dai positivisti dell’inizio del ’900. Con l’intenzione di qualificarla, sia gli uni sia gli altri hanno commesso razionalizzazioni spiegabili in soggetti che giudicarono i meravigliosi fenomeni della cultura indigena, dall’àmbito delle idee e valori della cultura occidentale; però non per questo stanno nel giusto. Considerata la medicina da un punto di vista del proprio contesto, assecondava la missione che la società nativa le aveva affidato, cioè diminuire l’ansia nel proprio gruppo e offrirgli sicurezza e resistenza. Questo era il suo compito specifico; il resto era puramente superfluo[24].
La occidentalizzazione del mondo è un fatto palpabile. L’estensione della medicina occidental–scientifica fa sì che molti problemi, comprensibili in un contesto culturale globale, possano essere gestiti e risolti; non tutti però. Alterazioni come il «susto» o la «mapuche kutran» (malattie da comprendere nel contesto sudamericano della vita mapuche), sono sindromi di nosologia indigena. «Blocco del Qi del Fegato–Cistifellea» è una sindrome definita nella MTC che non necessariamente coincide con una malattia specificamente catalogata da parte della scienza occidentale. Modi di cura come la «limpia», nella cultura amerindiana, accedono alla persona malata in maniera diversa da come lo fanno le pillole di un farmaco registrato. In entrambi i casi, il mezzo e il modo di cura si aggiustano al contesto socioculturale del malato così come al modo di intendere la malattia (da parte di lui e del medico), e al modo di sconfiggerla. Mezzi di trattamento come l’agopuntura (della MTC) non sono capiti nella loro vera dimensione se sono studiati con un’ottica diversa da quella del loro contesto originario. Giudicare l’agopuntura attraverso un’altra visione culturale (per esempio quella scientifica), implica necessariamente far paragoni. Se si considera che la posizione di partenza dello studio, per esempio quella scientifica, è quella “vera”, non comprendendo l’agopuntura come invece si conviene nel suo contesto originario, si vedrà solo come una pratica di stimolazione della reazione di difesa. Addirittura si potrebbero formulare giudizi qualificandola come placebo. Si sarà scoperta una “nuova” agopuntura, diversa da quella del suo contesto originario. E si sarà fatto un esercizio di autentico etnocentrismo. Seguendo Geertz (1990, 1993), crediamo che abbiamo bisogno di avvicinarci all’oggetto che di cui vogliamo parlare. Ciò implica necessariamente muoversi, “uscire dal nostro centro”, conoscere l’oggetto nel suo luogo, ri–conoscerlo. È l’esercizio basilare in antropologia; ed è un esercizio che l’antropologia invita a far mettere in pratica da qualsiasi ricercatore (scientifico naturale o scientifico sociale). Così capiremo che l’agopuntura o la limpia mesoamericana hanno significati rapportati ai rispettivi contesti socio–storici e culturali.
La limpia amerindiana ed altri procedimenti di etnomedicina significano qualcosa che sta al di là della nostra proiezione significativa (esotica), fatta a partire dal “nostro centro”. Se noi usciamo da lì, ci libereremo da una scomoda e antiquata posizione statica di osservazione, così come dal giudizio etnocentrico, inammissibile nei tempi che corrono per qualsiasi apprezzabile ricercatore, divulgatore o comunicatore culturale–scientifico[25].
Le medicine tradizionali possono essere praticate da sole o possono essere combinate tra di loro e con la medicina scientifica. Può esserci collaborazione tra i professionisti delle une e delle altre. Anche i sistemi terapeutici originari possono convertirsi in sistemi interculturali quando coloro che li conoscono e li praticano li adattano alle specifiche circostanze delle persone e dei loro problemi (relazione con il naturale–biologico, il sociale e il culturale).
In futuro potremo avere: a) una grande cultura mondiale con prestiti più o meno numerosi da parte delle altre culture che essa ha incontrato durante il percorso, b) una società internazionale multiculturale (con uno schietto dominio della cultura occidentale), c) una società caratterizzata dalla interculturalità, d) una dinamica imprecisa caratterizzata dalla variazione permanente del fatto culturale.
Nel frattempo, si praticano e si utilizzano le etnomedicine tradizionali mesoamericane, superstiti e preservate oggi come parte della cultura indigena da parte di istituzioni messicane; riconosciute da leggi sulla salute in alcuni Stati (Morelos, Nuevo León), e con riconoscimenti simili ad altri Stati (Oaxaca, Chiapas).
In Cina, in gran parte dell’Asia e in un ingente numero di Paesi del mondo è utilizzata con successo la MTC; in India e in Sri Lanka, la medicina ayurvedica. E in altre aree del pianeta continuano ad essere ancor vive forme di cura perfettamente valide fuori e dentro ai propri contesti; così come la medicina occidentale convenzionale (la più estesa della Terra).
Come medicine interculturali (adattate da parte dei professionisti ed etnomedici di distinti contesti socioculturali), la più conosciuta ed estesa è la medicina cinese. Però la diffusione delle conoscenze e la distribuzione nel mondo degli etnomedici originari stanno facendo sì che si conoscano etnomedicine così antiche e importanti come quelle dei gruppi indigeni messicani (uso del temazcal, dell’erboristica e le limpias) o sudamericani (erboristica, limpia etc.)[26].
Il lavoro sulla limpia che esponiamo di seguito corrisponde a parte della ricerca della tesi di dottorato del coautore A. J. Aparicio Mena[27], realizzata in differenti luoghi degli Stati messicani di México e Oaxaca negli anni 2004, 2005 e 2006. A tale lavoro si sono sommati gli apporti del coautore, medico ricercatore italiano Francesco Di Ludovico, anch’egli conoscitore di tali luoghi nonché dell’arte curativa erboristica delle etnie che vi abitano.





                                                                                  
Visione simbolica della limpia. Artista: Álvar Aparicio Tejido.



Nella Mesoamerica molte espressioni di alterazione, tra cui quelle del benessere e della salute, sono interpretate come situazioni di squilibrio nell’àmbito del mondo simbolico favorite da determinate condotte umane. Secondo gli autoctoni, la limpia è il mezzo migliore per correggere queste situazioni. Essa giunge a “tutte” le dimensioni della persona, poiché è capace di sciogliere i suoi “blocchi” simbolici, emozionali e fisici. La limpia non si può separare dal contesto culturale locale: soltanto in quest’ultimo, infatti, essa acquista il proprio significato.




[1] Intendiamo qui «benessere» nel senso di “stato della persona nel quale ella percepisce il buon funzionamento delle proprie attività somatica e psichica”.
[2] Si definisce «Mesoamerica» la regione geografica di caratteristiche storico–culturali simili, che si estende dalle zone centro–settentrionali del Messico fino a quelle meridionali del Nicaragua.
[3] Consideriamo «salute» in senso ampio. Il suo ultimo significato dato dall’Organizzazione Mondiale della Salute prevede non soltanto l’assenza di malattia ma implica la presenza di un equilibrio tra le componenti somatiche e psichiche della persona. Nelle etnie originarie o meticce, detentrici di tradizioni mediche e di credenze ancestrali, la “salute” è qualcosa di ulteriore; si tratta di un equilibrio dinamico tra componenti molteplici e di funzioni opposte: corporee e mentali, ma anche spirituali e religiose nonché naturali e soprannaturali, mistiche e sociali.
[4] Il termine «sciamano» (così come «shaman» in inglese e analogamente in quasi tutti gli idiomi) deriva dalla lingua dei Tungusi siberiani, presso i quali la parola «šamān» designava una persona capace di compiere viaggi spirituali sotto uno stato di coscienza alterato, con il fine che egli/ella potesse giungere in “mondi” non ordinari per intercedere con le Potenze Superiori a beneficio della propria comunità. Interessante il suo etimo: di probabile origine pali samana, con il significato di “sacerdote”, possiede le arcaiche radici indoeuropee *sa– e *manu–, che danno come risultato semantico “uomo sapiente” (F. Di Ludovico, A. J. Aparicio Mena. 2012. Le piante degli dèi. L’uso sacro degli allucinogeni vegetali: p. 117).
[5] Cfr. J. Brosse. 2000, Mitologia degli alberi. Dall’Eden al legno della croce.
[6] Parleremo poi di questa peculiare patogenesi di nosologia indigena.
[7] Cfr. M. Eliade. 2001, El chamanismo y las técnicas arcaicas del éxtasis.
[8] Cfr. J. Clottes, D. Lewis–Williams. 2001, Los chamanes de la prehistoria.
[9] Cfr. A. Tao. 2003, Chamanisme et civilisation chinoise antique.
[10] A. J. Aparicio Mena. 2009. Cultura Tradicional de Salud y Etnomedicina en Mesoamérica.
[11] Cfr. B. De Sahagún. 1994, Historia general de las cosas de Nueva España.
[12] Cfr. A. Reid. 2003, El manto del chamán.
[13] A. Hofmann. 1993. I misteri di Eleusi: pp. 1011.
[14] F. Di Ludovico, A. J. Aparicio Mena. 2012, op. cit.: pp. 34–35.
[15] Uso di piante allucinogene (enteogene) per “vedere” gli dèi e ricevere direttamente i loro messaggi, e della teurgia per carpire il potere divino; ermetismo, cabala, occultismo. Da parte della critica religiosa, tutto questo si annoverò nell’àm-bito della “magia”, insieme ad un misticismo più tollerato da un punto di vista religioso.
[16] Cfr. F. Di Ludovico, A. J. Aparicio Mena. 2012, op. cit..
[17] Cfr. R. Fedeli. 1993, “L’anima riscoperta”; in: A. Hofmann, I misteri di Eleusi.
[18] Cfr. E. Bach. 1999, La curación por las flores. Edward Bach era un medico inglese nato nel XIX secolo ed è il padre della cosiddetta «floriterapia». Il suo metodo curativo si avvaleva dell’“energia” derivata dall’alcolaturo di alcuni fiori, i cui princìpi attivi vegetali erano presenti in quantità simil–omeopatiche, benché si utilizzassero (come ancor oggi) in senso curativo allopatico: difatti, la floriterapia è finalizzata a contrastare le cause psicosomatiche di alcune malattie corporee, bloccando le “energie negative” originate dalla mente.
[19] Cfr. F. Di Ludovico, A. J. Aparicio Mena. 2012, op. cit.
[20] Cfr. M. Polo. 1984, Libro de las maravillas.
[21] Cfr. A. J. Aparicio Mena. 2007–a, Cultura tradicional de salud y Meso-américa. Del chamanismo arcaico a la etnomedicina.
[22] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, Il Giardino dei due mondi. Un viaggio nell’e-sperienza erboristica della Mesoamerica e dell’Italia.
[23] Non parliamo di distanze qualitative ma soltanto di livelli diversi di sviluppo.
[24] G. Aguirre Beltrán. 1963, Medicina y magia. El proceso de aculturación en la estructura colonial: p. 54.
[25] Cfr. A. J. Aparicio Mena. 2007–b, Etnomedicina en Mesoamérica Central.
[26] Cfr. A. J. Aparicio Mena. 2007–a,b, art. cit.
[27] Cultura tradicional de salud en Mesoamérica. Del chamanismo arcaico a la etnomedicina. Universidad de Salamanca, Spagna. 2007.

martes, 15 de octubre de 2013

Duelo y culturas

Por: A.J. Aparicio

Todas las culturas han explicado lo que en cada una se entiende por salud, bienestar y equilibrio. Dentro de los límites de ese estado de experiencia se encuentran las interacciones satisfactorias con nuestros seres queridos.
Considerándonos seres complejos compuestos por un "soporte duro", material, perceptible por los sentidos, más sabe Dios qué otros componentes, entre ellos, no "materiales", especie de "programas" según algunos, que nos permiten funcionar, que permiten que interactuemos con el entorno para obtener experiencias, entonces, lo que entendemos por bienestar, salud y equilibrio (al menos en nuestra cultura) depende entre otras cosas de las experiencias de las interacciones con los que queremos.
En culturas diferentes que hemos estudiado (de Mesoamérica, de Sri Lanka, de China y del Norte de África) hemos obtenido referencias que sitúan incluso en primer lugar las experiencias provenientes de nuestras relaciones con los seres queridos a la hora de explicar el binomio: "salud-enfermedad". Es lógico, pues, que cuando alguien amado se nos muere suframos.
Dentro de la cultura mestiza mexicana, eminentemente urbana, existe un simbolismo público que varía poco de unos lugares a otros; un simbolismo de "fiesta", de "complicidad y "compadreo" con la "muerte" que lleva a quienes se reúnen alrededor del "muertito" a manifestarse públicamente de manera menos trágica que los europeos. Ese "festejar" mestizo con la muerte, nos dicen los locales, tiene varias lecturas, una de ellas el deseo de seguir entre los vivos (los asistentes) y el deseo de recordar bien al amigo que se fue, honrándolo con narraciones jocosas incluso. 
En este artículo nos referimos más a la experiencia interior y personal del pariente o amigo que se queda, quien, indudablemente, sufre la pérdida para adentro. Acudiendo a un estándar explicativo más-menos generalizado tenemos que decir que este tipo de sufrimientos generalmente duran un tiempo llamado tiempo de duelo. Pasado ese tiempo relativo deberíamos poder reincorporarnos a la vida operativa en nuestro medio habitual. Cuando esto no sucede,  podemos considerar que algo en nosotros no va bien. O lo pueden considerar los que nos ven. Y si algo se nos ha "roto" pues hay que arreglarlo, dicho de esta manera para entendernos.
Para algunos médicos tradicionales chinos, incluso las vivencias de los duelos pueden ser peligrosas dejando secuelas y "daños" difícilmente evaluables "a priori". Informantes zapotecos en Mesoamérica me han comentado que algunos duelos pueden sumir a quien los sufre en un estado de experiencia pasajero a primera vista pero tremendamente erosivo interiormente semejante al estado de "susto". Pueden provocar incluso susto. Detectar esos estados no es fácil, sobre todo si el afectado no lo pide. En ocasiones, las alteraciones de nosología cultural-local pueden llevar al sufriente a la muerte. Los invisibles hilos que unen a las personas con ámbitos de proyección de sus sentimientos pueden afectar enormemente a alguien que haya perdido a un ser amado.
De todas las maneras, los propios narradores de sus vivencias nos dicen que, aunque se vuelva a la llamada  normalidad tras el duelo, la "realidad" vivida (a partir de ahí) es "otra". Y muchas veces sigue siendo triste y dolorosa, insisten, aún aparentando normalidad y siendo perfectamente operativos en su medio.
Escribe David Le Breton:
El dolor es sin duda la experiencia humana mejor compartida, junto con la de la muerte. (1)
El dolor moral por la pérdida de un ser querido no se considera objetivo a atender dentro de nuestra cultura occidental convencional. Como tantas otras cosas en la vida, es algo que hay que pasar. Sólo, como hemos señalado ya, si afecta a la operatividad de la persona en sus interacciones familiares, laborales, sociales (pasado un tiempo relativo) puede ser considerado motivo de estudio y atención en el plano de la salud y el equilibrio. En culturas distintas a la occidental convencional, culturas tradicionales, sí puede ser considerado como manifestación de alteración y origen de posibles otras manifestaciones. Se ve a la vez como experiencia "normal" pero capaz de dejar secuelas. Por esa razón, si el sufriente lo desea puede obtener ayuda de los especialistas en salud y reequilibrio de esa cultura (Asia, Mesoamérica).
El médico y poeta mapuche Elikura Chihuailaf expresa que es la "oralitura" el vínculo interpersonal que une tradiciones, grupo, personas, espacio y tiempo. Ese modo de enganchar a las personas de una colectividad también se refiere a las del pasado que ya no están, pero que continúan de alguna manera "vivas" en la "palabra" que se trasmite de unos a otros.
Distintos pueblos y culturas interpretan de maneras diferentes la "ausencia" de los que se van para siempre: unos "comulgando" tradiciones en manifestaciones colectivas, otros sufriendo exclusivamente el dolor interior y personal por la acusada pérdida del ser querido registrado en la "memoria sensorial", etc.
Mostramos a continuación la referencia íntegra de uno de nuestros informantes, le llamaremos Juan X, como expresión de experiencia pura, estando de acuerdo con las palabras de David Le Breton cuando dice que el dolor y la muerte son las vivencias mejor compartidas de la humanidad:

La vida racional podría ser un proceso de fabricación permanente de experiencias muy parecidas en las que el concurso sensorial sería la pieza clave. Cada día nuestros ojos se llenan de los "mismos" edificios, las "mismas "calles, las "mismas" personas. Cada día oímos los "mismos" sonidos. Cada día percibimos los "mismos" olores. Cada día, o periódicamente, saboreamos las "mismas" comidas y bebidas. Cada día, o periódicamente, sentimos el "mismo" viento y la misma humedad del ambiente de nuestro medio habitual. Cuando digo mismo me refiero a algo conocido ya por experiencia. Pasamos los años viendo normal lo que llega a nuestros sentidos. Pero cuando un día algo en la rutina cambia, cuando desaparece una información sensorial habitual, la experiencia cambia a bien o a mal. Nos acostumbramos a todo lo que nos rodea. A veces, algo de ese todo se nos adhiere al corazón, a la sangre, a los huesos, echando raíces de las que no solemos ser conscientes. Y el día en que el caprichoso destino nos priva de ese algo sensorial, experiencial, vivencial, emocional, ese día sufrimos el "desgarro de la carne", la ruptura de nuestra unidad y la separación de las raíces con las que vivíamos tan normales. En la medida en que las raíces van saliendo de nuestro ser sufrimos y en ocasiones el dolor es tan intenso que sólo "desenchufándonos" encontraríamos el alivio. Con dolor no hay paz, se sueñan pesadillas, se desconecta uno del mundo, no se tienen deseos. Cuando el destino nos arranca las raíces de nuestros seres queridos se produce una herida tal que sólo la nada podría curarnos. Pero el proceso senso-experiencial continúa y la nada raras veces llega. Duele la mañana, el encuentro de la conciencia con el día. Duele cada momento en que el recuerdo te trae al presente imágenes de tu ser querido relacionadas con el escenario que compartisteis y que ahora experimentas sin él. No calman las palabras ajenas y parece que uno se regodea evocando continuamente lo que fue y ya no será, lo que vivió y ya no vivirá más. Ese "deleite" enfermizo aún duele más.
Dicen que el tiempo del calendario cura esas heridas pero son los sentidos los que con nuevas rutinas, o con las mismas de antes van fabricando una nueva red de raíces en nuestra "tierra interior". Poco a poco otros enganches a lo visto, oído, olido, saboreado y tocado van componiendo un nuevo ser en nosotros, otro "cangrejo sagrado" guiándonos a través de nuestra relación con el mundo, los seres y las cosas.
Si el bálsamo del dolor no está caducado, los archivos de los sentidos tienen que ir desdibujándose hasta borrarse; no así los de los recuerdos emocionales que se suavizan pero permanecen (si nosotros queremos que así sea).
La experiencia del duelo no se puede narrar. Sólo trasmitiríamos palabras como éstas que aquí acabo de escribir.

Me quedo con la última frase de Juan X.
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(1) Le Breton, D. 2006. "Anthropologie de la douleur". Éd. Métailié. Paris.

jueves, 3 de octubre de 2013

EL VINO Y OTROS MENESTERES DE LOS TIEMPOS QUE CORREN. EL VINO, ALMA DE LOS DIOSES Y ALMA DEL SUR (breve reflexión).



Por: Alfonso J. Aparicio Mena.

El sabor de un trago de vino es un deleite breve, tan efímero como el tiempo que tarda en pasar por la garganta
. Sin embargo, algo tiene de "eterno" ese momento a juzgar por el arcoiris de sensaciones que nos deja.

Existiendo hoy un gran número de variedades de vid, hablaremos del vino como "elemento especial" de la naturaleza "tocado por los dioses". Fenicios, Griegos y Romanos clásicos lo elaboraron, disfrutaron y llevaron a los pueblos de las costas mediterráneas, donde arraigó su cultura de la misma manera que agarraron las cepas al suelo, siguiéndose su cultivo hasta la actualidad.

Pero no nos vamos a referir al vino como soporte-bebida cuya ingestión interactúa de forma particular en la persona provocando diversos efectos: desde los saludables por acción de los polifenoles y otros químicos beneficiosos, hasta los negativos por excesos etílicos. Nos interesa el vino vivido y referido como "toque de dioses" capaz de elevar el ánimo, hacer brillar el espíritu y trasladar a quien lo toma a los espacios poéticos de su interior mientras disfruta de un mundo creado por él a imagen y semejanza del de los "dioses"; sobre todo, los dioses alegres del pasado. Un mundo construido con materiales de disfrute, placer y amor. Un vino simbólico, en definitiva.

En la literatura universal tal vez sea el persa Omar Khayyam quien haya contado de forma más apasionada sobre el amor y el vino. Son poesías epicúreas en torno a la levedad del ser, la relatividad de las cosas de este mundo y lo efímero de la vida del hombre. Escéptico y agnóstico, el islamista se esfuerza por hacer un paraíso en la tierra por si el de más allá no existe. La eterna duda khayyaniana revolotea como una mariposa de brillantes colores sobre la felicidad haciendo buena la frase de Shakespeare de que "el momento presente posee alegría presente; y lo que ha de venir es inseguro" o la sentencia del Eclesiastés de "en el día del bien goza del bien. Y en el día del mal, medita". Sus versos parecen pasados por el tamiz de Juan Ruiz Arcipreste de Hita: "goza del placer, que el pesar viénese sin le buscar". Omar Khayyam es un beduino que bebe del pozo de la vida y llegado su momento deja su sitio a otro para que sacie su sed, con alegría y sin desesperanza. Sus poemas son gemas que iluminan con su brillo el caminar del hombre sobre el desierto, creando oasis de felicidad y visionarios espejismos de amor profano. 

¡Vino!, que sea rojo como tus mejillas.
 Y que mis remordimientos sean ligeros
 como tus bucles
 (...) Cuando una muchacha me trae una copa de vino
 no pienso siquiera en mi salvación.
 Si lo hiciera, valdría menos que un perro (1)

Durante la edad media el vino, además de ser "sangre de Cristo" en la liturgia católica, en el medio social no religioso (allí donde los monasterios lo proporcionaron a la colectividad aldeana) fue un medio de supervivencia, un recurso para ayudar a subsistir durante los largos y fríos inviernos de comarcas como el Cerrato castellano y otras regiones europeas. Gracias a su contenido en antioxidantes, vitaminas y otros elementos, su ingestión no sólo permitió a grandes y niños interactuar favorablemente en la química del metabolismo (interacciones cualitativas, coenzimáticas), también ayudó a los corazones a elevarse sobre la fría miseria del mundo circundante. Entonces y ahora, el vino llenó y llena los depósitos de alegría, buen humor y optimismo de las gentes sujetas al terrible yugo de la esclavitud del trabajo obligado, diario, liberando sus espíritus por momentos y permitiéndoles codearse por unos instantes con los dioses. ¿Quién dijo que el trabajo dignifica?, ¿Aquél a quien le interesa que otros trabajen para él sin hacerse preguntas?

Señalan nuestros informantes que existió y existe mucha moralina y fariseísmo en esta Europa tan deteriorada que tenemos. En su territorio se dieron grupos y gentes que por sus creencias consideraron y consideran el vino como una tentación del diablo y grupos y gentes considerando el vino como un beneficio otorgado a los humanos por los dioses. Los primeros, según nuestro informante J. I. (Profesor universitario) no ven bien a los segundos quienes, con poco, disfrutan intensamente de la vida y del presente, con o sin una copa de vino en la mano; mostrándose bastante libres de presiones ideológicas dirigidas a la producción dentro del concepto de progreso capitalista y neoliberal.

No estamos aquí para determinar quiénes tienen o no razón. Sí parece verse que las "gentes del vino" tienen otras maneras de ver la vida, más relacionadas con la tierra, con la tranquilidad, sin tanto estrés. Y no lo decimos por la bebida en sí sino por la cultura que la envuelve y que enmarca las identidades de esas sociedades. Nuestros informantes sí creen que el vino tuvo algo que ver en la fabricación de esos modos de ver la vida; el vino, no sólo como bebida sino también como símbolo; ese vino motor de culturas que viven al día, que están acostumbradas a la dureza de los cambios económicos y que heredaron del pasado la capacidad de reírse de sí mismas, sin remordimientos ni moralinas oscuras y sombrías del Medievo que todavía marcan el carácter y las acciones de otros.

Queremos, por tanto, elogiar el vino como una herencia de tiempos pasados; el vino que no dañó a nuestros abuelos, quienes lo elaboraron y bebieron hasta edades más allá de los 90 años. Un vino irreverente, un vino poco dócil, un vino liberador de almas, de complejos ridículos, de obediencias esclavistas, de cumplimientos estúpidos y de recuerdos dolorosos. Un vino contador de historias y cuentos a los nietos. Un vino generador de besos y abrazos. Un vino de fiesta, emprendedor, animador, socializador, creador y atizador de pasiones. Un vino que, bien bebido, cura, da placer y aporta un bienestar sin fin. Un Vino Medicina con mayúsculas.

Queremos también elogiar a las gentes que lo siguen elaborando sin miedo al demonio o a quienes en la sombra siembran semillas de crisis. Un vino sin miedo a producir y seguir manteniendo un Sistema enfermo que necesita una seria y profesional revisión de salud. Un vino sin miedo a un dios castigador, fustigador, traicionero y colérico que a otros tanto les restringe.

Un brindis por el espíritu de nuestros respetados abuelos y sus vinos, un brindis por el espíritu de la uva, parte integrante de los viejos dioses y creo que también del nuevo, bien visto (pese a que otros se escandalicen y no lo vean así, o no les interese verlo así). Un vino capaz de trasportarnos a la cordura de la tolerancia, de proporcionarnos la sabiduría de la buena convivencia, de aportarnos el saber de los buenos deseos, de dejar que la gente se mezcle con libertad, de enseñarnos el valor de la generosidad, la solidaridad, el compañerismo y el respeto natural de unos hacia otros. Un vino que no nos haga aprovecharnos de nuestro vecino desde (o no) un puesto privilegiado. Un vino que nos dé el don de la videncia del más acá y de la sensatez de saber vivir.

El vino es bueno para una persona normal. El vino no hace daño. Sólo su consumo excesivo lo hace dejar de ser vino, convirtiéndolo en lo que se ve en quien lo toma.

Y terminamos con unos versos del poeta Omar Khayyam citado por J. Manuel Parrilla en su libro:

Me dicen: ¡No bebas más, Khayyam!

y yo les digo, cuando he bebido,

oigo lo que me dicen las rosas, los tulipanes

y los jazmines (...)

Ábrete hermano a todos los perfumes,

a todos los colores, a todas las músicas (...)


(1)
J. Manuel Parrilla, 2000. "El fulgor del vino en Castilla y León". Ediciones Matriz. Valladolid. Págs.: 46-47).