Los seres humanos creamos culturas. Observamos, pensamos, imaginamos, obramos, comunicamos nuestras experiencias... Somos variados. Construimos nuestra "realidad". Fabricamos opiniones y maneras distintas de narrar nuestras vivencias. Este espacio expone estudios y trabajos del campo de la antropología del bienestar y la salud así como de la antropología de la naturaleza, sus componentes y sus leyes mostrando diversas concepciones y acciones que en esos terrenos se pueden dar y llevar a cabo en las culturas y sociedades del mundo.

Foto: "Águila peleando con serpiente". Tatuaje clásico del artista: Alvar Mena (La barbería tatuajes. Salamanca)

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SEGUNDA ETAPA

martes, 7 de enero de 2014

“Le piante degli dèi. L'uso sacro degli allucinogeni vegetali”

Introducción.
El siguiente texto es un extracto del libro: “Le piante degli dèi. L'uso sacro degli allucinogeni vegetali”. Autores: F. Di Ludovico, Alfonso J. Aparicio Mena. Aracne Ed., Roma, Italia. 2012.

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In America. Introduzione.
Prima di tutto precisiamo ciò di cui parleremo in questo paragrafo, poiché su questo tema si è scritto molto. Qui tratteremo del consumo di determinati mezzi estatici come un ulteriore tratto distintivo dei caratteri culturali di popolazioni dello Stato messicano di Oaxaca. La nostra esposizione si presenta attraverso un discorso esplicativo e didattico piuttosto che tecnico–concettuale di tipo filosofico o biologico, usando gli strumenti dell’analisi critico–culturale antropologica. Affrontiamo lo studio, dunque, con un approccio sociobioecoculturale dando importanza all’informazione etnografica. Diamo risalto al valore di determinate pratiche ed esperienze (locali e riguardo al benessere e alla salute delle persone) come una manifestazione di individualità tradizionali, un sostegno all’identità e alla sopravvivenza delle popolazioni.
Come dietro al mondo visibile e tangibile si nascondono, per gli indigeni mesoamericani, innumerevoli energie e poteri che determinano le vie degli accadimenti, così l’esperienza umana si diversifica relegandosi in altre dimensioni del mondo reale, le quali danno una particolare profondità e un’ineguagliabile ricchezza alla vita. Il pensiero religioso di queste etnie concepisce spazi e soglie che possono essere scorti e varcati soltanto in occasione di particolari condizioni (come quelle che la società occidentale chiama «stati alterati della coscienza»): alcuni uomini riescono ad attraversarli, e così acquisiscono poteri sovrannaturali. Tali condizioni, nelle quali si dà vita a bizzarre esperienze e che permettono l’accesso ad àmbiti distinti dal mondo dell’esperienza consueta, si producono, secondo queste genti, quando lo “spirito” (entità immateriale e trascendente) si distacca dal corpo: è un’evenienza che può capitare per vari motivi e in particolari circostanze della vita[1]. Tra le forme di separazione dello “spirito” dal corpo spiccano il sogno e la trance estatica, stati che, in accordo al significato che possiedono per gli indigeni, piuttosto che irrazionali potrebbero essere considerati sovra–coscienti Pertanto, secondo l’indigeno l’Uomo è un essere capace di transitare attraverso àmbiti misteriosi e straordinari, trascendendo la propria limitazione fisica e spaziale; quindi egli è concepito come un essere duale, le cui componenti, opposte e complementari, non sempre rimangono unite durante la vita ma si separano definitivamente alla morte del corpo. Un esempio ordinario di separazione intenzionale dello “spirito” è la trance estatica, provocata da pratiche ascetiche varie (meditazione, canti ritmici, autoipnotismo, digiuno prolungato etc.) e, in modo più facile e diretto, dall’uso di funghi e vegetali psicoattivi. Dunque, i sogni e la trance estatica sono per gli autoctoni mesoamericani una sorta di trasferimento (volontario o no) dello “spirito” grazie ai quali esso può dirigersi verso altre sfere della realtà, spesso concepite come sedi degli Esseri divini; e quelle peculiari piante, convenientemente in mano di saggi come gli sciamani, che aiutano l’Uomo a introdursi in tali àmbiti sono state a buon diritto considerate divine[2].
Esaminando il significato che si attribuisce ancor oggi all’attività onirica da parte delle popolazioni aborigene dell’America centrale, possiamo riassumere che il sogno: 1) non è concepito dissimile dalla realtà oggettiva: esso è, semmai, una realtà vissuta (dallo “spirito”) in altre sedi (ultramondane) intanto che il corpo è in uno stato di coscienza trasformato; 2) è interpretato, quindi, come l’allontanamento dello “spirito” da questo mondo; 3) qualora indotto, porta lo “spirito” del fruitore/sciamano in territori sacri, affinché costui riceva messaggi da parte degli dèi o dei propri avi; 4) possiede una valenza eminentemente ausiliatrice (terapeutica, divinatoria etc.), poiché la conversazione ultramondana in cui lo sciamano si intrattiene con gli dèi/avi è frequentemente finalizzata alla conoscenza della diagnosi e della cura di un paziente o all’acquisizione di suggerimenti per risolvere una questione che affligge le sue genti, oppure, meno di frequente, per ricevere nozioni sagge o conoscere l’occulto.
Partendo dalle premesse fatte e tramite il lavoro sul campo, constatiamo che esistono in determinati gruppi umani persone che affermano di oltrepassare la barriera del sensoriale addentrandosi in mondi non retti da leggi fisiche —o che, per lo meno, finora conosciamo come classiche. Tali persone utilizzano vari mezzi e procedimenti affinché —a detta loro— superino i limiti della percezione sensoriale e sfocino in spazi, mondi ed àmbiti —giusto per volerli chiamare in qualche modo— che noi qui abbiamo ascritto alla denominazione generica, ampia e simbolica di “sogni”[3]. In qualità di antropologi cadremmo in errore (d’impostazione di studio) se per comprendere tali fenomeni utilizzassimo il criterio di paragone proprio della scienza positiva. La nostra missione è osservare, cercare di capire attraverso l’esperienza (partecipazione relativa), ascoltare ciò che ci viene riferito, analizzare e riflettere per poi comporre un’etnografia che trasferisca all’interessato le realtà esperite e/o comunicate. È ciò che cercheremo di fare nelle seguenti pagine.
Da poco condotta un’analisi sul campo nello Stato di Oaxaca sui “mezzi estatici” vegetali utilizzati dalle popolazioni autoctone, come coautore riferisco quanto segue in questi paragrafi. Nello Stato di Oaxaca mi hanno spesso detto che è finito il tempo degli sciamani, e che quelli che rimangono (fra Zapotechi, Chatitos, Mixe etc.) sono specialisti locali o medici tradizionali dalle formazioni varie e dai molti poteri. Alcuni di costoro possono usare i “funghi” o altri mezzi per oltrepassare la barriera della coscienza ed arrivare così ad uno spazio di conoscenza diverso, in cui costoro sono–e–non–sono ciò che sono, però dal quale prendono ciò di cui necessitano: 1) per affrontare il problema che hanno difronte, 2) per avanzare nel cammino della saggezza. Tuttavia, secondo alcuni miei confidenti, gli sciamani in quanto tali, in Messico, sono esistiti fino alla curandera María Sabina[4]. Da quel momento tutto è cambiato. Mixe, Chatitos e Zapotechi mi hanno detto —ed io l’ho osservato— che per oltrepassare la barriera del sensoriale possono essere usati: a) mezzi provenienti dalla natura come la “Santa” (Salvia divinorum), i “funghetti” o “nanacates” (Psilocybe spp.: caerulescens, mexicana etc.) e certe bibite alcoliche, b) mezzi mentali/spirituali/culturali come la concentrazione (alla maniera dei Trinitari Spiritualisti Mariani della costa del Pacifico), le preghiere o l’induzione per mezzo della parola.
Esiste un altro mezzo/modo: il sogno naturale in cui lo specialista vive determinate situazioni o riceve informazioni, dritte e ordini per comportarsi di conseguenza. Ignacio Bernal (medico dello Stato di Oaxaca e specialista di culture indigene) mi ha ben confermato tale fatto. A volte, quanto esperito nel sogno è un codice che, decifrato da parte di uomini o donne saggi, apporta informazioni aggiuntive. Tale fu il caso di quando ho cominciato a frequentare Don Isaac, appartenente ai Trinitari Spiritualisti Mariani, nell’area mixteco–chatina del Pacifico dello Stato di Oaxaca. Fu una visita non annunciata. Quando mi presentai, egli mi disse che già sapeva che qualcuno stava per arrivare. Era addirittura in possesso delle mie generalità. Mi spiegò che aveva vissuto un sogno il cui significato era la mia visita.
Questo stesso specialista mi parlò di una forma di affrontare problemi importanti come il cancro a partire dal sogno naturale: «Dopo una preparazione preliminare, Lei mette in ordine l’abitazione, il letto e si veste con degli abiti affinché durante il sonno, nella notte, [i sogni] vengano ed operino contro il Suo male. È un modo di aiutare persone che non hanno i soldi per potersi permettere cure costose. Noi crediamo in questo». Dalle parole di Don Isaac ho tratto due conclusioni: 1°) che questo modo di “intervento spirituale” —per chiamarlo in qualche modo— aveva connotazioni sociali importanti (unione della terapia tradizionale mesoamericana con l’Uomo e col Gruppo: sostegno, protezione, aiuto, progresso, mantenimento del-l’identità e dell’integrità collettive etc.), 2°) che c’era da sperimentarlo, da osservatori esterni quali eravamo, per poter parlare direttamente di ciò. Più in là di queste idee non vado, dato che sono un antropologo. Non devo applicare nessun metro di giudizio, come già detto. Tutti sappiamo che nella cura influiscono molti fattori ed elementi: alcuni sono i mezzi terapeutici, altri sono invece difficili da precisare e identificare (appartenenti principalmente al terreno personale e culturale). La proposta di Don Isaac mi sembrò coerente col suo contesto culturale. In Mesoamerica ho visto che si conferisce grande importanza al sogno naturale: per curare, per ricevere informazioni di vari esseri, per mettersi in connessione con mondi non sensoriali, per dare dritte e consigli, per consultare, per prendere una scelta per qualcosa di personale o riguardo alla comunità, eccetera. Il sogno naturale è anche una porta d’accesso per dimensioni non fisiche e un ponte tra spazi di coscienza diversi ma assolutamente complementari. Per tale motivo, il “sogno dei funghi” o di altri vegetali (che quindi è un sogno indotto, un “sogno artificiale”) ha fatto bene presa sin da tempi immemorabili su queste popolazioni. Poco si è tuttavia studiato e conosciuto a proposito dell’ampia cultura del sogno in Mesoamerica[5].
Esistono molteplici mezzi per entrare in questo mondo speciale della conoscenza. In questa premessa, ci occuperemo tuttavia principalmente di quelli vegetali, chiamati nel Messico centrale «nanacates» (Psilocybe spp.) e la «Santa» (Salvia divinorum); insieme alle altre piante, li tratteremo nelle monografie ad essi specificamente dedicate nelle pagine dei capitoli seguenti.
L’avvicinamento alla comprensione di fenomeni umani di gruppo si espleta tramite un necessario ascolto delle spiegazioni e di ciò che viene riferito dai membri di questi gruppi. Quando non si tiene conto di questo principio (nella pianificazione di uno studio sui fatti umani) si corre il rischio di valutare con il nostro metro di giudizio ottenendo, così, informazioni distorte e senza diretta relazione con le esperienze dei protagonisti delle culture studiate. Quando gli spagnoli arrivarono in America, portarono il metro di giudizio proprio della loro terra d’origine e della loro cultura (delle loro convinzioni, sia ufficiali sia tradizionali). Ancora non esisteva l’antropologia né i suoi princìpi e insegnamenti per approcciarsi correttamente allo studio delle realtà umane. È difficile capire ciò che non abbiamo creato e alla cui comprensione accediamo partendo dalla nostra visione e dai nostri standard (educazione, credenze etc.). Questo è stato ciò che accadde quando gli osservatori spagnoli si avvicinarono alle tradizioni amerindie. Così si riflette nei resoconti lasciati dai compilatori.
A proposito dei mezzi estatici, Ricardo Herren evidenzia che molte narrazioni sulla cultura del consumo dei funghi fra gli amerindi, esposte da cronisti ecclesiastici o di rappresentanti ufficiali della Corona durante e dopo la conquista, associano l’esperienza estatica al-l’ebbrezza e a pratiche demoniache[6]. Lo stesso Sahagún il tema su funghi e varie piante usate per accedere nel regno soprannaturale della Grande Realtà da parte di specialisti locali lo presenta così nel suo Codice Fiorentino al settimo capitolo del libro XI: «Paragrafo primo, su certe erbe che ubriacano. C’è un’erba che si chiama “coatlxoxouhquij” e produce un seme detto “ololiuhquj”[7] o “coatl–xoxouhqui”. Questo seme rende ebbri e folli. Lo somministrano in pozioni per arrecare danno a coloro cui si vuol male, e a chi lo mangia appaiono visioni e cose spaventose. Lo danno da mangiare col cibo e da bere con le bevande i fattucchieri e chi odia qualcuno per fargli del male. Quest’erba è medicinale e il suo seme [è valido] contro la i reumatismi[8], macinandolo e mettendolo nella zona dov’è il reumatismo»[9]. La novità, il disconoscimento delle culture che incontrarono, la paura, la mancanza di confidenza e la mentalità dell’epoca (mentalità ufficiale associata alla religione cattolica), furono, a mio parere, i responsabili di tale visione. Ricordiamo che Sahagún fu tenuto sott’occhio da certi rappresentanti della Corona e della Chiesa a causa della sua “eccessiva dedizione” al lavoro di compilazione sulla cultura azteca. Consapevole della sua posizione (difficile), egli nei suoi scritti mise forse da parte gli aspetti più appariscenti, col fine che questi scritti potessero sopravvivere (cosa che è comunque stata un miracolo).
Lo studio successivo delle culture amerindie e un avvicinamento alle loro tradizioni privo di etichette di potere ed egemonia della cultura occidentale–cristiana ha offerto la possibilità ad una maggiore e migliore comprensione delle stesse e delle tradizioni sciamaniche; comprensione ben lungi da alcune delle spiegazioni degli europei giunti in America nel XV secolo. «Nel momento attuale, i funghi continuano ad essere utilizzati in Mesoamerica da parte degli indigeni e meticci, che li “consultano” interrogandoli sul futuro e su vari misteri oppure […vi] cercano soluzioni ai conflitti psichici che li tormentano. Servono poi per dare diagnosi e come medicine per malattie fisiche»[10]. Poco posso aggiungere a questa affermazione. Per ciò che ho visto, udito e per ciò che conosco a riguardo, è così.
Fra Bernardino de Sahagún scrive nel Codice Fiorentino: «C’è un’altra erba che si chiama “péyotl”[11]; è bianca, cresce circa nella zona del Nord; coloro che la mangiano o la bevono hanno visioni spaventose e ilari; quest’ebbrezza dura due o tre giorni, e dopo se ne va; [il Péyotl] è un bene comune dei Cicimechi, che li mantiene in salute e infonde loro coraggio per combattere e non aver paura né sete né fame, e si dice che li preservi da ogni pericolo»[12]. In questa narrazione trovo nozioni che ho udito da parte delle guaritrici–sciamane del Pacifico riguardo ai funghi: la loro capacità di far dimenticare la fame, la sete e la stanchezza. Possiamo continuare a leggere nell’opera di Sahagún: «Ci sono certi funghetti in questa terra che si chiamano “teonanácatl”: nascono sotto il fieno nei campi o nelle praterie, sono rotondi ed hanno il gambo altino e sottile e circolare; mangiati, hanno un sapore cattivo, arrecano danno alla gola ed ebbrezza; sono medicinali contro i calori e la “gotta” [i reumatismi, N.d.R.]; se ne possono mangiare non più di due o tre: coloro che li mangiano hanno visioni, ora spaventose ora ilari, e si sentono folli nel cuore; a coloro, quantunque pochi, che ne mangiano troppi provocano lussuria. E ai tipi folli e monelli si dice che abbiano mangiato il nanácatl»[13]. Sahagún descrive una grande varietà di funghi chiamati dai nativi «nanácatl», davanti al cui termine se ne pone un altro che indichi la differente specie o l’uso che se ne fa. Varie illustrazioni nel Codice Fiorentino fanno riferimento alle piante e ai funghi allucinogeni. Nel libro XI se ne può vedere una che rappresenta un campo di funghi sul quale fluttua una figura, facendo verosimilmente allusione alle visioni che produce l’ingestione dei nanácatl. Il libro di Sahagún ci fa avvicinare direttamente ad una realtà la cui “essenza” ancora vive, pur sincreticamente, nelle culture locali.
Il Dott. Juan De Cárdenas, nel XVI secolo, a proposito del Peyote scrive: «Si racconta in verità del Peyote, del Poyomate[14] e del-l’Ololiuhqui, che se si prendono per bocca, lo sciagurato che li assume lo fanno uscire di senno talmente tanto che, tra altre terribili e spaventose immagini fantasmatiche, gli si manifesta il demonio, ed [esse] gli comunicano —a quanto si dice— ciò che sta per accadere; e dev’essere tutto impronta e menzogna di Satana, la cui peculiarità è di ingannare col permesso divino il disgraziato che in simili occasioni lo cerca»[15].
Ci sono molti riferimenti di Juan De Cárdenas a casi riguardanti la divinazione, la cura e gli effetti strani dell’uso di materie animali, vegetali e minerali fatto da parte della popolazione indigena: l’Autore, spesso, non può che cercare di spiegarli e di chiarirli sotto la lente della propria cultura che è quella spagnola ufficiale; altre volte egli li espone e li riferisce così come gli venivano comunicati da parte degli informatori locali; realizzò pertanto un autentico lavoro etnografico. La comprensione dell’uso di una materia in un determinato gruppo è sempre relazionata alla conoscenza delle chiavi culturali di chi le utilizza. Risulta logico, dalla nostra recente panoramica, capire che alcuni cronisti e informatori spagnoli del XVI secolo riferissero gli effetti del consumo di certi funghi in relazione alla simbologia occidentale e cristiana del “demoniaco”. In realtà, osservavano persone in attitudini fuori dal razionale, cui nell’Europa ufficiale dal Medioevo si associò sempre il contatto con “il maligno”.
Ángel B. Espina Barrio (2002) dà risalto al lavoro di indigenisti come Sahagún, le cui informazioni hanno, fino ai giorni nostri, fatto conoscere aspetti importanti della cultura preispanica. Gastón Guzmán (1999) narra la propria esperienza dell’assunzione di funghetti fatta nelle vicinanze di Huautla (nello Stato di Oaxaca). Egli spiega che, quando aveva le visioni, era consapevole della propria ubicazione nell’abitazione e del fatto che stava avendo queste visioni.
L’Uomo occidentale, o formato in questa cultura, nel riferirsi all’esperienza utilizza immagini discorsive razionali; nell’arte e nella poesia si utilizzano, invece, simboli. Le signore che conobbi a Nopala e provincia mi riferirono che l’esperienza con i funghetti era indistin-ta dal vissuto consapevole. La motivazione sta nel concetto della Grande Realtà, in cui i piani espressivi della vita e degli esseri si fondono accreditando come informazione trasmissibile il vissuto senza necessità di parcellizzare, differenziare e analizzare, procedimenti abituali della mente razionale di taglio ellenico.
Negli anni trascorsi dall’arrivo degli europei in America, supponiamo che ancora si conservino elementi particolari della cultura tradizionale di salute e dello sciamanismo tra i Chatines come quelli che si possono leggere nelle pagine di Sahagún riferite alle usanze.
“Funghi”, “nanacatitos”, pozioni, “Santa” e altri sono considerati da parte delle persone che ho conosciuto (utilizzatori) esseri con cui si condivide la quotidianità. Il “Fungo” forma un tutt’uno con l’entità che vive in esso. Comunica col suo fruitore nel mondo dei “sogni del fungo”. Nanacate e il suo spirito sono la stessa cosa, un essere superiore con apparenza adattata alle realtà in cui si mostra (funghi nel mondo fisico sensoriale tridimensionale e “bambini” nel mondo del “sogno”). I miei interlocutori del Pacifico sono etnomedichesse locali integrate nelle loro società e culture. L’assunzione dei “nanacatitos” la realizzano all'interno di contesti tradizionali organizzati e ben strutturati. Per il fatto di sapere, di aiutare o di curare, i “funghi” sono visti da parte delle mie conoscenti come esseri potenti ed autonomi, le cui decisioni non sempre rappresentano le risposte sperate da coloro che li usano alla ricerca di soluzioni. Queste donne sono molto rispettose di tutto ciò che gira intorno al loro lavoro, specialmente con i pazienti e con gli Esseri che governano le piante ed i “funghi”. Le ho osservate più di una volta intente a parlare a determinate piante, sollecitando aiuto, chiedendo il permesso o recitando litanie prima di realizzare un lavoro di limpia[16] o altro.
Un’etnomedichessa di cui parlo nel mio libro «Cultura tradicional de salud y etnomedicina en Mesoamérica»[17] è una persona anziana e malata, cosa che però non le ha impedito di farmi (durante uno dei nostri incontri) una limpia coll’uovo, da cui me ne andai migliorato (rimando il Lettore al libro, in cui troverà i dettagli della limpia). Riporto qui una parte di ciò che narro per illustrare quanto detto: «Quindi siamo passati in una stanza in penombra dove c’era un tavolo sopra il quale poggiava il necessario per l’“operazione”: bicchieri d’acqua, uova, mescal[18]. [La curandera] mi ordinò di togliermi la camicia e pronunciò una preghiera: “Santissimo sacramento, Padre eterno e Santissima Vergine, fate la vostra benedizione e che venga fuori tutta la malattia”. Usò un’erba del suo orto chiamata “floripondio”[19]. Ne tagliò sette foglie e le asperse col mescal[20]. Poi mi disse che dovevo parlarle e chiederle aiuto: “Fogliolina, che meraviglia [di compito] ti ha dato Iddio; stai per diventare un rimedio. Ti userò per guarire”. Soltanto questo le dico. [La curandera] prese a sfregarmela, strofinandomi la pelle. La guaritrice spiegò che chi mette in pratica una limpia percepisce, avverte il male che sta spazzando via (“io poi sento, sento un dolorino, mi si attacca”). Dopo avermi “ripulito” con la pianta, fece lo stesso tramite un uovo precedentemente irrorato di mescal, pronunciando “Nel nome di Dio e della Santissima Maria, col meraviglioso compito che ti ha dato Iddio, tira fuori tutta la malattia. Padre eterno e Vergine Santissima, guariscilo”. Dopo avermelo passato varie volte attorno al corpo e alla testa, lo ruppe in un bicchiere d’acqua. Poi prese un altro uovo e, dopo preghiere e aspersioni con mescal, me lo ripassò come aveva fatto con quello precedente. Compiuto l’atto, procedette alla “lettura” delle uova. Il primo uovo era rovinato: tuorlo e albume disgregati e disfatti. Il secondo uovo sembrava integro, presentava solo un’area grigiastra sulla superficie del-l’albume. [La curandera] mi spiegò che con il primo uovo era uscita tutta la malattia. Non si trattava di un male fisico giacché il tuorlo rimaneva nel fondo. Si trattava di aire[21], cioè “sguardi” della gente con differenti pensieri (buoni e cattivi). Notava anche stanchezza e troppo lavoro. “Le ha soffiato forte l’‘aria’, vede?” mi disse. Disfece il tuorlo. Il secondo uovo va bene. “Con questo [uovo] Lei s’è già purificato”, aggiunse. Volli sapere come [ella] avesse conseguito le conoscenze per “leggere” le uova nell’acqua. Mi rispose che fu grazie a sua madre e all’esperienza. Per la protezione conto malocchio e aire mi raccomandò di portare con me un sacchettino contenente un aglio, un peperoncino e un rametto di basilico»[22].
L’altra etnomedichessa con cui ho dialogato e ho condiviso idee è considerata lì da lei una donna saggia, cosa che però non le ha evitato di avere occulti nemici a causa dell’invidia, come lei in persona mi ha dichiarato. Un terzo informatore della zona chatina mi ha narrato le sue esperienze con la “Santa” e di come nel “mondo del sogno” abbia potuto vedere il “tona” (animale–anima corrispondente ad una persona) di altri e indicare cure per affinità tona–persona. Tutti concordano che si crea una liberazione dai legami carnali quando si va nel “mondo dei sogni dei bambini”. Per spiegare nello specifico la personale esperienza al Lettore, rimando qui alle pp. 101–102; anticipo solo dicendo che tanto María Sabina quanto le etnomedichesse di cui parlo narrano che i “funghi” quando sono mangiati si trasformano in bambini che, nella dimensione in cui viaggia la coscienza del consumatore, sono soliti prenderlo per mano e accompagnarlo in una sorta di gita didattica e informativa dove l’umano trova risposte alle sue necessità o guide per trovarle.
L’inizio di uscita e di ricerca che intraprende lo sciamano siberiano si ripete nei modelli sciamanici delle culture amerindie, ed è il volo sciamanico descritto da M. Eliade. Alcuni specialisti possono consigliare di prendere la “Santa” o i “nanacates” ai loro clienti–pazienti affinché incontrino la strada della soluzione delle proprie preoccupazioni e problemi o affinché aiutino dalla loro esperienza con questi elementi le proposte degli specialisti del luogo. È il caso delle donne che ho conosciuto. Secondo costoro: «quando il malato è invitato a prendere il fungo o la Santa lo si consiglia e lo si guida alla soluzione da un altro livello».
Se la fisica quantistica ci rivela “comportamenti” incredibili delle particelle subatomiche che formano la materia, e se ciò può impaurirci, sorprenderci, inquietarci fino ad irritarci, le esperienze con elementi induttori di “sogni” (cosiddetti «oneirògeni») rivelano agli specialisti amerindi altri livelli di esistenza in cui costoro percepiscono senza usare i sensi, conoscono Esseri con i quali comunicano senza proferire parola, e vanno a finire in determinati spazi senza avvertire i vincoli abituali propri del mondo materiale. Come antropologi non ci chiediamo se le variazioni di coscienza rispondano a motivi di alterazioni elettrochimiche cerebrali, all’entrata —da come narrano i protagonisti delle esperienze— in mondi in cui dimorano Esseri potenti diversi da noi, o ad entrambe le spiegazioni insieme. Ci interessa cosa abbiano vissuto gli utenti, ci interessano le loro narrazioni esperienziali e le realtà costruite (mondi costruiti) che costoro ci descrivono. Questi vissuti, qualora siano fatti–stati di esperienza comunicabili, sono oggetto di interesse antropologico poiché palesano tratti caratteristici di rivelazione di culture diverse, e ciò ci orienta nella loro comprensione. Ci rivelano anche la capacità umana di adattarsi ed interagire in ogni dove, in ogni società e in ogni circostanza. Ci informano dell’importanza della cultura nel divenire dei popoli: come sono i costumi, le tradizioni etc., le quali danno forma alle identità locali o nazionali. Allo scopo di capire le credenze e le usanze religiose di ogni popolo ci sembra infatti necessario che si sappia qualcosa della loro concezione del mondo e della vita e in genere del loro contesto culturale.
Nel caso della chiesa ayahuascquera (caratterizzata dal consumo rituale della bevanda ayahuasca, costituita dal decotto della liana di Banisteriopsis caapi insieme ad altre piante; cfr. qui, pp. 85–89), i fedeli ingeriscono la pianta nell’àmbito di un rituale perfettamente organizzato e diretto. Esiste uno schema da seguire. Il cervello degli assistenti in un dato momento può formare immagini distorte della realtà sensoriale per la mediazione elettrochimica causata dai princìpi attivi della pianta. In questi momenti è la cultura quella che prende le redini della momentanea trasformazione delle persone. L’organizzazione dell’atto e la conduzione culturale impediscono il per così dire “caos conseguente all’uso”, conducendo a buon porto gli assistenti. Lo stesso càpita con gli etnomedici dello Stato di Oaxaca che ho conosciuto. Il pericolo è dietro l’angolo per chi non abbia un buon piano di utilizzo o una strada da seguire. Mi hanno offerto i “funghi” ma non li ho mangiati, poiché non possedevo tali guide. Non avevo nemmeno una motivazione. E, inoltre, per rispetto e perché stavo conducendo un lavoro. In questo caso, rendendomi partecipe tramite degustazione, ho osservato ulteriori impieghi di altre piante e bevande come il mescal senza però arrivare a situazioni di alterazione della coscienza benché, sì, piuttosto ad un po’ d’ebbrezza. Con le mie etnomedichesse sono stato partecipe conversando, osservando i loro lavori, lasciandomi servire e curare e interagendo con loro conducendovi vita in comune.
L’uso locale dei “funghi” mantiene una relazione stretta con le ragioni che hanno giustificato la loro scelta come mezzo di lavoro e di ausilio. Ho visto una logica schiacciante tra il prima, il durante e il dopo. In qualità di osservatori esterni diremmo che apprezziamo fatti relazionati con queste persone e i consumi di “mezzi speciali” in tre momenti: - quello precedente al varco della “soglia” (preparazione, finalità–obiettivi, disposizione), - quello dell’esperienza (dello specialista si fa vedere soltanto il corpo mentre la sua mente “di–vaga” in “altri luoghi”), - e quello del ritorno.
I “bambini dei funghi” indirizzano, danno, rispondono, consigliano etc., e il guaritore o la guaritrice operano di conseguenza. Gli esperti tengono in debita considerazione la ragione del loro “volo”, della loro visita al mondo dei “bambini”; e la maggior parte delle volte le loro proposte, aiuti, apporti e attuazioni ai pazienti o a coloro con cui siamo relazionati, sono corrette e coerenti; almeno questo è ciò che ho costatato nelle cerimonie di sanazione in cui sono stato presente, incluse quelle praticate su di me.
In quelle terre a volte ci si imbatte in visitatori occidentali. Alcuni vanno alla ricerca di esperienze con i “funghi”. Alla gente del posto danno spesso fastidio l’audacia e la mancanza di rispetto con cui tali stranieri si orientano all’uso dei “funghi”. Alcuni li vogliono per divertirsi, altri per scoprire sensazioni speciali o vivere esperienze nuove. Non voglio giudicare ciò. Soltanto dico che coloro che ho incontrato non sanno di cosa si tratta. Svincolano il “fungo” dal suo contesto tradizionale, e non si prefiggono le finalità che hanno i fruitori autoctoni. Una delle donne che conosco ha preso i “funghetti” per molti anni, dalla sua adolescenza. Erano tempi brutti, secondo lei, e i funghi la aiutarono a sopravvivere mitigando la sua fame. E R. Herren (1993) rimarca l’uso del fungo per alleviare lo sforzo, la fame e la sete. L’etnomedichessa cui mi riferisco ha aiutato persone con problemi vari, ha orientato sulle strade da seguire e ha imparato molto dai “bambini del sogno”. Nel mio libro succitato[23] si espongono in dettaglio gli incontri con queste persone ed altri etnomedici dello Stato di Oaxaca; e raccomando la lettura del libro del coautore Francesco Di Ludovico «Il Giardino dei due mondi – Un viaggio nell’esperienza erboristica della Mesoamerica e dell’Italia»[24], in cui il Lettore incontrerà chiavi e guide per capire aspetti propriamente etnofarmacologici non sempre ben interpretati da parte di chi si avvicina alla conoscenza di questi fenomeni.

[1]
Cfr. qui, nella scheda monografica alle pp. [...].
[2]
Cfr. M. De La Garza, Sueño y alucinación en el mundo Náhuatl y Maya. Universidad Nacional Autónoma de México, UNAM. 1990: pp. 15–18.
[3]
Per intendere quelli che neuro–psicologicamente sono definibili immagini ipnagogiche, allucinosi, fantasie, sogni lucidi, oniroidismi, visioni.
[4]
Di cui raccomandiamo la biografia: Á. Estrada, Vida de María Sabina, la sabia de los hongos. Siglo XXI Editores. 2003.
[5]
Cfr. M. De La Garza, op. cit.
[6]
Cfr. R. Herren, La otra cara de la conquista. Planeta, Barcellona, Spagna. 1993.
[7]
Detto Ololiuhqui in spagnolo messicano, è botanicamente Turbina corymbosa; cfr. qui, pp. 111–113.
[8]
Il termine «gotta» (gota in castigliano) nell’accezione spagnola medievale aveva il significato di “dolore reumatico” come pure di “edema”.
[9]
Sahagún, 1994. «Párrafo primero, de ciertas hierbas que emborrachan. Hay una yerba que se llama coatlxoxouhquij, y crían una semilla que se llama olo-liuhquj, o coatl xoxouhqui. Esta semilla emborracha y enloquece. Danla por bebedi-zos para hacer daño a los que quieren mal y los que la comen parescenles que veen visiones y cosas espantables. Danla a comer con la comida y a beber con la bebida los hechiceros y los que aborrecen a algunos para hacerles mal. Esta yerba es medicinal y su semilla para la gota, muliéndola y poniéndola en el lugar donde está la gota».
[10]
R. Herren, op. cit.: p. 157.
[11]
Botanicamente è Lophophora williamsii; cfr. qui, pp. 93–97.
[12]
Sahagún, 1994: «Ay otra yerba que se llama peyotl; es blanca, hazese hacia la parte del norte; los que la comen o beben veen visiones espantosas o derrisas, dura este emborrachamiento dos o tres dias, y despues se quita, es comun manar de los chichimecas que los mantiene y da animo para pelear y no tener miedo, ni sed, ni hambre y dizen que los guarda de todo peligro».
[13]
Sahagún, 1994: «Ay unos honguillos en esta tierra que se llaman teonanacatl: crianse debaxo del heno en los campos o paramos, son redondos y tienen el pie altillo y delgado y redondo, comidos son de mal sabor, dañan la garganta y emborrachan, son medicinales contra las calenturas y la gota, anse de comer dos o tres no mas, los que los comen veen visiones y sienten locos del cora-çon y veen visiones a las vezes espantables y a las vezes derrisa, a los que comen mucho provocan aluxuria y aunque sean pocos. Y a los moços locos y traviesos dizenles que an comido nanacatl».
[14]
Verosimilmente corrisponde alla pianta definita col nome botanico di Quararibea funebris, e detta Flor de cacao in spagnolo messicano.
[15]
J. De Cárdenas, 1591 Rist. 2003: 4: «Quentase con verdad del Peyote del poyomate, y del Hololifque, que si se toman por la boca, sacan tan deveras de juyzio al miserable que los toma, que entre otras terribles, y espantosas fantasmas se les representa el demonio, y aun les da noticia (según dizen) de cosas por venir, y debe ser todo traças, y embustes de sathanas, cuya propiedad es engañar con permission divina, al miserable que en semejantes occasiones le busca».
[16]
Una limpia costituisce un rituale religioso in cui da parte di un guaritore (curandero o sciamano) si sfrega il paziente con varie erbe (molte di ispanica provenienza: rosmarino, basilico e ruta) mentre si prega con lui; può essere condotta anche sfiorando il paziente con un uovo integro e fresco che alla fine viene rotto dal guaritore: se presenta un tuorlo ingrigito, la limpia ha sortito il positivo effetto di togliere negatività al paziente. È considerato un rito purificante per l’anima.
[17]
Trafford publishing, Alberta, Canada. 2008.
[18]
Liquore ottenuto dalla distillazione del cuore di alcune specie di Agave (Agave angustifolia, salmiana, azul tequilana etc.) in maniera simile alla tequila.
[19]
Botanicamente è Datura/Brugmansia sp.; cfr. qui, pp. 137–140.
[20]
I guaritori (curanderos) normalmente prendono in bocca una sorsata di mescal e poi la soffiano sulla persona che riceve la limpia o sugli oggetti o mezzi di cui costoro si servono.
[21]
Nel contesto culturale mesoamericano della malattia, il termine aire assume un’accezione diversa da quella propria e semplice di “aria”; designa, infatti, una sorta di soffio energetico, un alito magico, ordinariamente a connotazione negativa. Pertanto il mal aire è come una “ventata maligna”, che ha il potere di insinuarsi irreversibilmente in una qualsiasi parte dell’organismo della persona contro cui si “soffia”. Motivi che secondo la nosologia popolare amerindia cagionano il mal aire sono, il malocchio oppure l’esposizione ad agenti inquinanti o la permanenza in luoghi malsani: discariche, posti impuri, acquitrini, zone paludose e con acque stagnanti (da cui la probabile origine del cinquecentesco etimo del termine “malaria”).
[22]
A. J. Aparicio Mena, La limpia en las etnomedicinas mesoamericanas; in: Gazeta de Antropología 2009; vol. 25(1), art. n.21: pp. 226–227.
[23]
A. J. Aparicio Mena, Cultura tradicional de salud y etnomedicina en Me-soamérica. Trafford publishing, Alberta, Canada. 2008.
[24]
Aracne Editrice, Roma, Italia. 2009 Rist. 2011.

La "Befana", una tradición italiana el día de los Reyes Magos.

Por: Francesco Di Ludovico.

Introducción.
Nos trae Francesco Di Ludovico una nueva tradición de su país. Se trata, en esta ocasión, de la "Befana", ocupando en  el calendario, el espacio de celebración del día de los Reyes Magos. 
Solemos pensar, en relación con el Bienestar (con mayúscula), sobre todo en el ajetreado mundo "moderno", que casi todos los problemas de salud tienen una solución médica, bien sea a través de fármacos sintéticos, tecnología punta, plantas u otros medios, remedios y procedimientos específicos de diferentes maneras de ver los desequilibrios, las alteraciones y la atención-curación.
Poco nos paramos a reflexionar sobre las experiencias de nuestras interacciones diarias (físicas, sociales y culturales). Si lo hiciésemos, o lo hiciésemos más, nos daríamos cuenta de que muchos de los males que padecemos (llamados enfermedades) provienen de experiencias "negativas", traumáticas (en cualquier sentido y grado), insatisfactorias, poco o muy poco gratificantes, etc. Nuestras interacciones con virus y bacterias, por ejemplo, no siempre terminan en "desarmonías" tratables profesionalmente. Pero gran parte de las veces no nos damos cuenta. No nos damos cuenta tampoco de que, usando "medios" ordinarios (nosotros mismos) tenemos la posibilidad, con formación, información y práctica, de impedir grandes daños a partir de diversos problemas sufridos. 
Las vivencias diarias, en tanto que experiencias de interacción que comienzan en el mundo sensorial, pueden ser controladas por cada uno con el fin de estar bien. En otros casos, son determinados acontecimientos positivos, agradables y gratificantes los que directamente hacen el trabajo, o lo dirigen, reforzando el Bienestar (y dentro de él, el propio sistema defensivo, físico por antonomasia).
En otras culturas, no solamente de otros lugares sino del nuestro en tiempos pasados, se valoraba todo esto más que en la actualidad. Se valoraba que el ser humano está integrado en la Naturaleza y que su suerte dependía de la suerte de ésta. Había conocimientos asociados a ciertos acontecimientos "festivos" (relacionados con lo social o lo natural) verdaderamente importantes para el bienestar físico, mental y emocional. 
Las vivencias de "ilusión" experimentadas en la infancia construían un muro de protección alrededor de nuestra integridad global influyendo en la "creación de la realidad". Algunos de aquellos acontecimientos han sobrevivido dentro de las tradiciones, costumbres y culturas de nuestros entornos, principalmente, rurales. 
La festividad de los Reyes Magos era, y sigue siendo (relativamente hoy), uno de ellos. Periódicamente, y estratégicamente, a lo largo del año se sucedían otros acontecimientos componiendo una red dentro de un sistema calendárico capaz de cubrir gran parte de las necesidades de interacción equilibrada con el entorno inmediato (y del entorno con los seres humanos). Eran acontecimientos reequilibradores, reponedores, mantenedores de los "niveles de normalidad" individual, social y medioambiental en la comunidad, en el espacio de desarrollo vital.
Nos llega del pasado la tradición de la "Befana" en Italia, que podríamos incluir en esa categoría especial de acontecimientos (A.J. Aparicio).

La "Befana" (por: F. Di Ludovico).
El 4 de enero, una carta y la espera.
Y a la tarde: un niño y los latidos de su corazón.
Una hoja en blanco y la escritura incierta. Una hoja quizá de tamaño normal, pero grande para los ojos de un niño y, asimismo con letras de gran tamaño. Ésas sí, deliberadas y de caligrafía precisa, para que la viejita pueda leer sin demasiado esfuerzo (pobrecita). Y precisas como la lista de regalos esperados que, en la carta, a la viejita Befana se le piden. 
De mi parte, la verdad, una carta escrita con un poco de tristeza. No recuerdo una alegría total. El corazón, de hecho, me palpitaba entre las ganas y la espera. Estaba también el miedo a encontrar a la Befana y su pobreza. Ella, además de ser fea, no parece ser más que una pobre mujer vieja; sin embargo, lleva los regalos que los niños le piden. Con absoluta puntualidad y absoluto amor, la noche del 5 de enero no pide nada en cambio. Entra por la noche en cada casa donde un niño le ha escrito. Sin necesidad de llaves, ingresa a través de la chimenea o a través de una ventana que sólo ella sabe abrir por fuera. Sin embargo yo le dejaba un poco de dinero y abierta una ventana, esperando no ofenderla y no ser irrespetuoso con las reglas: unas monedas sobre la carta y unas líneas entre paréntesis como posdata. Me sentía incómodo al permitirle que pasara por la chimenea con brasas. Y preguntaba a mis padres cómo hacía para pasar por tan estrecho canal. Pero confiaba. Ahora, adultos, deberíamos confiar más y elucubrar menos. Y en esa fe incondicional el corazón seguía dividiéndose entre la excitación de la espera por recibir esos regalitos y la esperanza de que a la viejita le fuera todo fácil. 
A la mañana, al despertar fui a ver si la viejita había tomado la carta y llevado los regalos, pero no, la carta seguía allí y no habían regalos. 
Al otro día, al despertar, el corazón lleno de pena y esperanza, sí... por fin. Durante la noche la viejita, sin un ruido que pudiera traicionar su presencia, había llegado y dejado los regalos. Todavía siento esa alegría mezclada con ternura. Una vez me puse triste porque la Befana no tomó las monedas que yo le había dejado. Mi madre, de pronto, me dijo: "no te sientas triste, hijo; a pesar de su aspecto humilde la Befana no es tan pobre. No te preocupes", guiñándole el ojo a mi padre. Y la cara feliz de mi madre porque yo tuviera su misma alegría me volvía sereno. Y acariciaba ora el magnetófono de color anaranjado, ora el disco de vinilo que olía a dibujos animados y a cariño. Un cariño especial; que hizo que la Befana permaneciera hasta mis nueve años. De ahí, un recuerdo también especial a mis padres, verdaderos actores de las compras y de la alimentación de los pequeños sueños de un hijo.


Corrupción lexical de Epifanía, la "Befana" es una figura típica del folklore italiano, dispensadora de regalos, ligada a las festividades navideñas.
Según la tradición italiana, la Befana, representada como una mujer muy vieja volando sobre una escoba gastada, va a visitar a los niños durante la noche del 5 de enero (noche de la Epifanía), llenando los calcetines con dulces o dejando los regalos pedidos.
El origen de esta figura está probablemente relacionado con ciertas tradiciones campestres paganas ligadas a simbolismos del fin de año y "renacimiento" del año nuevo. De hecho, representa la conclusión de las fiestas navideñas, como reino entre el fin del año solar (solsticio invernal, el llamado "Sol invictus") y el inicio del año lunar. Antiguamente, la 12ª noche después del solsticio invernal, se celebraba la muerte y el renacimiento de la naturaleza, a través de la figura pagana de Madre Naturaleza. Los Romanos creían que en esas doce noches, figuras femeninas volaban sobre los campos recién sembrados para propiciar cosechas futuras.
Según algunos autores, eran guiadas por Diana, Dea lunar relacionada con la vegetación. Otros estudiosos opinan que era una deidad menor llamada Satia o Abundia. La Iglesia condenó semejantes creencias, definiéndolas como las consecuencias del diablo.
Tales superposiciones crearon muchas personificaciones, las cuales, durante la Edad Media en Italia, se concretaron en la Befana, cuyo aspecto -aunque benévolo- está mezclado con el de una auténtica bruja.
La apariencia de vieja sería pues una figuración del año viejo (pasado): una vez terminado, se le puede quemar así como acontecía en varios Países europeos (donde por la misma ocasión se quemaban fantoches).
Otra hipótesis interesante es que la Befana estaría relacionada con una antigua fiesta romana que tenía lugar al inicio del año en honor de Giano y Estrena (de cuyo nombre deriva el vocablo "estrena", regalo) durante la cual los Romanos tenían la costumbre de intercambiarse obsequios.
Según una versión "cristianizada", los Reyes Magos, al ir a Belén para llevar regalos al Jesús recién nacido, no encontraron el camino. Así, se dirigieron a una viejita que vieron preguntándole por dónde se iba. A pesar de sus insistencias para que ella los siguiera, la mujer no quiso. En seguida, la viejita de arrepintió; hizo unos dulces, llenó una canasta y salió de casa para buscar los Reyes, pero no los encontró. En consecuencia, decidió visitar casa por casa regalando sus dulces y golosinas a los niños que encontraba (esperando que uno fuera Jesús). Desde entonces, regalaría dulces y otras cosas a los niños para que se la perdonara.