Los seres humanos creamos culturas. Observamos, pensamos, imaginamos, obramos, comunicamos nuestras experiencias... Somos variados. Construimos nuestra "realidad". Fabricamos opiniones y maneras distintas de narrar nuestras vivencias. Este espacio expone estudios y trabajos del campo de la antropología del bienestar y la salud así como de la antropología de la naturaleza, sus componentes y sus leyes mostrando diversas concepciones y acciones que en esos terrenos se pueden dar y llevar a cabo en las culturas y sociedades del mundo.

Foto: "Águila peleando con serpiente". Tatuaje clásico del artista: Alvar Mena (La barbería tatuajes. Salamanca)

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SEGUNDA ETAPA

martes, 29 de abril de 2014

"LA LIMPIA NELLE MEDICINE TRADIZIONALI MESOAMERICANE"

El presente texto es parte de la versión italiana del libro "La Limpia en las Etnomedicinas Mesoamericanas", publicado en Italia por ARACNE EDITRICE. Autores: Alfonso J. Aparicio Mena & Francesco Di Ludovico. Traducción hecha por F. Di Ludovico. Cubierta e ilustraciones: Álvar Aparicio Tejido.

"Malattia e cura
Come già detto, l’equilibrio che garantisce la salute all’uomo è interno a questo (fisico e psichico) così come esterno (instaurato, dunque, con la società, l’ambiente e l’ultraterreno). In tal modo la malattia, secondo tale cosmovisione, può avere origine dalla rottura di questo equilibrio a causa dell’inadempienza a regole con il suo habitat generale implicando cosmo e divinità; pertanto gli originari mesoamericani dichiarano una visione olistica dell’uomo. Secondo questa —ripetiamo— l’Uomo è concepito come un insieme relativamente indissolubile di componenti somatica (corpo) e psichica (mente, affettivo–emotiva) insieme a quelle spirituali (Tonalli, ecc.); a questo aspetto, intrinseco ed estrinseco, si sommano il mondo superiore (cosmo, calendario, dèi, ecc.) e le credenze (superstizioni, magia, ecc.). La relazione microcosmo–macrocosmo si instaura tra l’Uomo e l’Universo (divinità incluse), così come tra le sue parti (organi) e gli astri. Il livello orizzontale mette a confronto l’Uomo con i suoi simili, con l’àmbito sociale e con quello naturale.

Da queste considerazioni strutturali si può capire come per gli indigeni diventano fondamentali, per mantenere la salute, l’amore per se stessi e per gli altri, per gli dèi e la natura, l’attenzione ai pensieri, il timore alla magia e il rispetto all’influenza calendarico–astrale. Perciò le eziologie nosologiche possono essere molte e composite, come i danni organici, i problemi mentali, le sociopatie, l’alterata relazione con la natura, la mancanza di religiosità, l’invidia, il susto, il mal aire, il malocchio[1].

Vogliamo approfondire in questo paragrafo il concetto di Tonalli, di cui abbiamo già fatto cenno. Una visione strettamente cristiana cattolica ha, impropriamente, tradotto la parola nahua “Tonalli” (o “Tonal”) in “anima” o “spirito” o, con sforzo sincretico, “ombra”. Il Tonalli lo possiamo interpretare, piuttosto, come una specie di aura che nasce dalla testa, circonda il corpo essendone una parte al contempo; divina energia, afflato sacro, forza vitale, intelligenza saggia, principio essenziale che resiste alla morte e che determina al suo possessore indole e destino, libera volontà, coscienza. Fisiologicamente, secondo le testimonianze originarie, il Tonalli si separa dalla parte somatica al momento dell’orgasmo, nel sogno e in caso de ebbrezza[2]. Inoltre, le cose apparentemente inanimate hanno il proprio Tonalli (“subatomica vitalità”, potremmo dire); anche con questo senso possiamo concettualmente assimilarlo all’asiatico Qi; in realtà ad una parte del Qi essenziale, poiché anche il Qi è la materia fisica e l’organizzazione e l’insieme di leggi del mondo newtoniano. Nella tradizione della MTC si dice, per esempio, che quelli che chiamiamo «organi» (come il cuore, il fegato, il polmone, la milza, il rene) hanno le proprie “essenze” (Qi) o entità psichiche associate, di natura sottile (potremmo dire quantistica o addirittura subquantistica). Questi “spiriti” associati o uniti necessariamente ai suddetti organi sono: Shen, Hun, Po, Yi, Zhi e tutti dipendono e derivano dallo Shen generale individuale (mente di ogni persona, identità differenziata da quella di un altro individuo, essendo però parte del Qi universale).

Nelle pagine precedenti abbiamo accennato a due importanti malattie di nosologia indigena mesoamericana: il susto e l’aire; qui vogliamo spiegarle meglio. Nell’àmbito nosologico mesoamericano, la parola “susto” possiede una valenza semantica più profonda di quella semplice e sinonimica di “spavento”; di fatti, può parafrasarsi come “stress post–traumatico”, la medesima malattia che secondo la moderna psichiatria soffre una persona a seguito di un brutto incidente o di un lutto doloroso. Ciò si rende causa della “perdita del Tonal” (chiamata oggigiorno, per sincretica traduzione, “perdita dell’anima” o “perdita dello spirito”), che consiste clinicamente in depressione nervosa, stanchezza, insonnia, incubi o altri malesseri funzionali (psicògeni, non organici)[3]. I miei informatori dello Stato messicano di Oaxaca me lo hanno descritto (con altre parole) come un problema risultante dall’interazione con l’ambiente (fisico, sociale e culturale–simbolico) per persone appartenenti ai gruppi originari o alla società meticcia. Il susto provoca varie reazioni, però le persone che ne soffrono si debilitano sempre più, perdono interesse per il cibo e le bevande, per la gente e per le altre cose; sono tristi, dimagriscono o sono infiammate, a volte si esauriscono, respirano a fatica, hanno fobie e difficoltà nelle relazioni con gli altri. Si dice che un luogo, una circostanza, alcune persone, un animale, un fenomeno meteorologico (intesi come esseri dotati della capacità di influire sulle persone e sulle cose) eccetera, hanno rubato loro o hanno fatto sì che “perdessero l’anima”, il costituente animico–energetico–vitale capace di mantenerle unite al mondo e operative nel proprio gruppo. Alcuni dei miei informatori etnomedici assicurano che il susto non curato può evolvere fino alla morte del paziente; e credono anche che contro il susto i rimedi occidentali siano per la maggior parte inefficaci, e che soltanto l’abile intervento dello specialista o di un’altra persona che conosce i procedimenti tradizionali di cura possono interrompere l’evoluzione e/o risolvere il problema. Anche nell’àmbito della classe scientifica messicana ci sono persone che parlano con gran rispetto del susto, sia perché ne hanno personalmente sofferto sia perché lo hanno visto in persone a loro vicine. I miei informatori mi riferirono di alcune esperienze di susto senza che avessero una spiegazione logico–scientifica dei fatti narrati.

L’aire è un altro problema di nosologia indigena: ha il significato di “soffio energetico”, “alito magico” frequentemente a connotazione negativa (mal aire). Consiste, secondo le genti locali, nella compromissione della persona a causa di “energie” provenienti da sguardi o pensieri, ma anche dal terreno, dalla prossimità ad aree malsane, acque stagnanti, immondezzai o spazi qualificati impuri e dannosi da un punto di vista tradizionale (simbolico). Infatti, quando si acquisisce con gli sguardi cattivi della gente, il mal aire coincide con il malocchio. Si può pensare bene o male della persona cui si rivolge lo sguardo. In ogni caso, tali pensieri possono trasferirsi come “energie” producendo aire. Lilian Scheffler dice che il mal aire si acquisisce passando vicino al cimitero o se una persona, con l’intento di cagionare del male, mette ossa di morto o terra cimiteriale in casa; e che si cura con limpias praticate da parte di specialisti[4].

Nella cura, si dà di solito, comunque, somma importanza all’aspetto religioso, poiché c’è la credenza che alla fine la volontà di Dio (o, in termini di politeismo, gli dèi) influisce sul resto. In tal modo, un semplice mal di testa non è visto soltanto come tale, bensì come un’infermità che è potuta capitare per varie ragioni, frequentemente congiunte, la cui risoluzione necessita comunque dell’aiuto divino. L’essere umano, infine, non dipende da ciò che egli usa per riequilibrare la bilancia, bensì da ciò che Dio dice o decreta per lui e il per il suo futuro. Se la divinità decide che egli si salvi, l’Uomo troverà i mezzi per salvarsi; se la divinità decide che egli muoia, nessun mezzo, tradizionale o moderno, lo libererà dal destino (o progetto) “fatale”.

E quindi —come si chiedono le credenze tradizionali— che cosa ci facciamo qui, in questo mondo? È penoso mettersi in questo genere di pensieri. Siamo —come dicevano gli antichi amerindi— semplici “cammini di dèi”, “strade di Entità superiori”, “stazioni di riposo o di cambio” in cui le potenze divine è come se riprendessero forza prima di continuare il proprio percorso. Così lo intendevano gli Aztechi e altri popoli autoctoni quando facevano morire gli “incarnati divini” con il fine che aiutassero a far rinascere gli dèi che vivevano in loro (o in coloro in cui gli dèi si convertivano temporaneamente). Era necessario aiutare la divinità, uccidendola; o, detto in altro modo, facendo terminare la vita al contenitore umano che la albergava (o a quello in cui si era fusa). Ed esistevano molti tipi di morte, secondo le date del calendario e delle festività. Anche i modi di dare morte agli “sciagurati” supporti umani dipendevano dall’importanza della divinità, delle sue funzioni e di altre matrici della complessa organizzazione e struttura dei sacrifici. Tutto era “scritto” e organizzato. Nessuna o pochissime cose si davano al caso. I cicli e i cieli comandavano e con essi i rituali più volte celebrati. Gli officianti incaricati di dare la morte avevano profonda conoscenza del corpo umano, pertanto, se lo desideravano, potevano fare il proprio lavoro, minimizzando il dolore o la sofferenza del sacrificato. Si usavano prodotti narcotici come il vino di agave (pulque) per determinati uomini destinati e in determinate circostanze. I sacrifici umani erano uno spettacolo poiché assembravano varie persone a presenziarli. Però erano, essenzialmente, procedimenti tecnici, limpias speciali con cui produrre la morte necessaria per rinascere e in tal modo aiutare a perpetuare il movimento costante del “rinnovamento” obbligatorio e continuo (“eterno”) del contesto divino. Tali limpias di sangue e con sangue sono per noi ripugnanti dal nostro attuale punto di vista; tuttavia, per gli Aztechi erano una “necessità” mossa dalla paura di ciò che sarebbe capitato si fosse fermato il ciclo del rinnovamento morte–rinascita. Gli dèi dovevano essere blanditi in ogni istante, e ce n’erano molti. Occorrevano, dunque, molti uomini da sacrificare. Alcuni —come abbiamo già detto— trasformandosi in dèi momentaneamente (giacché si poteva far morire una divinità soltanto attraverso della corporeità umana); altri, per essere offerti chiedendo aiuto, clemenza e tranquillità a dèi più “astiosi” e “irascibili”. Alcune persone destinate al sacrificio erano autoctone; altre, erano persone limitrofe catturate in guerre e battaglie. La finalità della guerra era, infatti, di conquistare “prigionieri”, materiale umano per onorare le festività sacre e i rituali necessari.

La vita umana, fisica, come obiettivo, il lavoro per conservare l’in-tegrità strutturale del corpo, erano anche fini nobili e di prim’ordine nell’àmbito dell’organizzazione sociale degli Aztechi. Si utilizzavano davvero tutti i mezzi disponibili per aiutare a curare una persona destinata al sacrificio, soprattutto se era un’“incarnata” per nascita; questa veniva ben accudita durante la propria esistenza terrena fino ad arrivare al momento di essere sacrificata in una data specifica con il fine di liberare alla divinità che rappresentava (tra l’“umano oblio”). Tuttavia, non litigavano tra di loro. In cima a tutto c’erano i sacrifici, nell’àmbito dei quali annoveriamo tale principio della limpia, come ben chiaramente dimostra il bagno temazcal: eliminare il vecchio per far comparire il nuovo dell’essere; togliere i mali che gli rendono difficoltoso il cammino verso il “rinnovamento”, con morte reale ai tempi aztechi, con “morte” simbolica successivamente e ai giorni nostri. Il Codex Florentinum di Fra Bernardino De Sahagún è ricco di dettagli su tali pratiche e sulle norme che le regolavano in epoca preispanica. E nella società azteca si traeva profitto da tutto. Non si sprecavano i corpi delle persone uccise: essi erano richiesti o comprati da parte di personalità o famiglie per realizzare banchetti a casa e festeggiare il giorno nutrendo gli invitati, familiari e amici lì riuniti.

La vecchia idea, dunque, della compartecipazione divina al benessere umano continua a essere presente tra le persone delle etnie mesoamericane, come abbiamo esaminato; tale idea è addirittura confluita nelle tradizioni della società meticcia e urbana.

«Facciamo ciò che ci è permesso di fare», segnalano alcuni etnomedici dello Stato messicano di Oaxaca riferendosi alla relazione con le “sfere superiori”. «Abbiamo bisogno, quindi, di includere in molti dei nostri lavori preghiere, suppliche, offerte e ogni segno che richiami l’attenzione di Dio, della Santa Maria e degli altri Santi affinché ci concedano ciò che chiediamo».

Don Isaías dice, per esempio, che se alla fine moriamo non succede niente; ritorniamo all’origine, là da dove siamo venuti: al Padre. «Non bisogna avere paura», dice. Nella tradizione meticcia che rappresenta questo guaritore, non vediamo qualcosa vicino a ciò che si può leggere nel Codice di Sahagún e che abbiamo riassunto brevemente nelle righe precedenti? Morire, ritornare all’origine, ritornare al Padre. Don Isaías ci parla del ciclo vitale superiore (ciclo di andirivieni). In esso esistono vari tipi di “morte”: quella delle malattie che come ostacoli bisogna eliminare poiché impediscono all’Uomo di seguire il suo cammino; e la morte fisica, fine del tragitto segnato per ognuno di noi in questo mondo secondo le credenze tradizionali. Qui le malattie (quando una persona muore a causa loro) svolgono il ruolo di “assassine”, necessità per “purificare” un’altra cosa e ritornare all’inizio; e così una e un’altra volta. “Purificare” secondo Don Isaías significava terminare con qualcosa, se si decide nelle sfere superiori, che debba “morire” (la propria malattia come ente) permettendo al malato di liberarsi e di rinnovarsi per seguire il tragitto della propria vita fino a che l’“altra morte” lo liberi ad “altri scopi”.

Piante

Il rapporto dell’uomo con il mondo delle “entità vegetali”, adibite o no a scopo curativo, è stato sempre molto stretto, soprattutto nei tempi antichi.

La cura tradizionale con le piante medicinali (chiamata «etnofarmacologia») in Mesoamerica obbedisce a molteplici parametri. Dopo aver dato una diagnosi di malattia organica, da parte della gente comune l’uso delle piante è principalmente proposto in maniera allopatica (fitoterapia), dove la scelta della pianta da impiegare è di tipo empirico (nel senso di sperimentale). Nonostante tale frequente evenienza, le piante utilizzate possono essere scelte in base alla natura “fredda” o “calda” della malattia, la parte del corpo colpita, il giorno e il contesto in cui la malattia è insorta. Tale approccio non corrisponde dunque esattamente all’allopatia attualmente intesa, ma la supera in quanto migliora la scelta vegetale rendendola più specifica ad ogni caso clinico anche quando si tratta del medesimo paziente (in momenti o casi diversi). La pianta medicinale è pertanto concepita come apportatrice, al corpo, di un salutifero messaggio energetico, di una specie di vibrazione sanatrice, un po’ come succede secondo la moderna floriterapia; inoltre, sempre secondo la cosmovisione meramente indigena, al vegetale si conferisce una valenza panteistica, come se esso fosse impregnato di divino, di quello spirito che vibra in tutte le cose anche di apparenza non animata[5].

Maria Alice Campos Freire[6] a tal proposito scrive che incorporare le proprietà della pianta in una pillola è molto meno effettivo di utilizzare la pianta allo stato naturale, poiché la forza vitale della pianta, elemento essenziale per la cura, viene distrutta quando se ne fa una pillola[7]. La “forza vitale” cui si riferisce tale Autrice è quell’energia superiore che anima tutto il creato e che riveste un carattere speciale in ogni essere (persona, animale, pianta) e in ogni cosa (minerali, spazi naturali, spazi umani, ecc.), che però evidentemente non trasferisce ai prodotti elaborati dall’industria farmaceutica. Questi possono avere le proprie “anime”, benché personalmente non conosco studi al riguardo.

Non è, dunque, infrequente che nelle etnomedicine mesoamericane le informazioni sulle cause di alcune malattie si ricerchino attraverso l’intervento del mondo spirituale, soprattutto quando si sospetta che l’origine del malessere sia divina. In tal caso diventa comune la pratica che il terapeuta religioso (lo sciamano in primis) si avvalga di piante[8] capaci di alterare lo stato della sua coscienza in modo che egli possa fare filantropica incursione nell’universo trascendente in cui chiedere a Dio il motivo dell’accadimento funesto[9].

Altre piante sono donate in offerta o in occasione di liturgie, altre possiedono finalità divinatoria. In questi casi, diversi, però tutti finalizzati a preservare religiosamente lo stato di benessere, il mondo vegetale diventa il mediatore tra l’Uomo e il Divino per ringraziarlo o blandirlo così come per acquisirne conoscenza. Quando, d’altra parte, il sospetto di una malattia è la magia, il paziente o i suoi familiari si orientano specialmente ad un curandero che proponga come cura una limpia fatta significativamente con erbe e preghiere. Comunque sia, a causa del fatto di conferire, tanto da parte della pagana religiosità indigena quanto di quella dell’iberico stato ecclesiale, somma importanza all’aspetto religioso, quasi sempre nella terra novoispana si propongono terapie che tengono in conto il divino, sia in forma sincretica sia in forma puramente pre–/post–Conquista.

Oggigiorno, dopo cinquecento anni di complessa integrazione con gli aspetti europei, sono, di fatto, circondati da una nuova flora, che ha già acquisito un carattere di nazionalità, quei molti alberi e piante medicinali autoctoni, vestigia di un antico paradiso, la cui coltivazione permise la realizzazione di mercati per l’esercizio formale della medicina indigena, e che tempo fa spuntavano meravigliosamente da mirabili giardini e da collezioni scrupolosamente curate[10].


[1] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, ivi.


[2] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, ivi.


[3] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, ivi.


[4] L. Scheffler. 2003, Magia y brujería en México: p. 23.


[5] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, op. cit.


[6] Rappresentante della Chiesa del Santo Daime, nella selva amazzonica.


[7] Tratto dalla cit. in C. Schaefer. 2008, La voz de las trece abuelas: p. 115.


[8] Come abbiamo già detto, sono chiamate «enteogene» (“dalle quali sorge il divino”, “che tirano fuori il divino che è in noi”) o comunemente «allucinogene».


[9] Cfr. F. Di Ludovico, A.J. Aparicio Mena. 2012, op. cit.


[10] Cfr. F. Di Ludovico. 2009, op. cit."